una fogliata di libri

Quando uno scrittore è davvero sé stesso?

Marco Archetti

Il cupo e concavo “Gelo” di Thomas Bernhard più che a un romanzo somiglia a una relazione e a un (auto) referto. Pagine piene di mostruosi scuoiatori, di distillatori, di gendarmi. Aspro e lontano dalle poesiuole para-sapienziali sulla montagna-metafora che tanto va di moda

Quando uno scrittore è davvero sé stesso? Accettato il presupposto che lo è se non lo è – nessuno più di uno scrittore esprime il proprio incarnando l’Altro – è utile ripassare Raffaele La Capria, che in Letteratura e salti mortali ci ricorda un paio di cose essenziali: citando Faulkner e ratifica la sua definizione di “opera riuscita”, cioé un’opera che fallisce magnificamente. “Hemingway non ha mai osato uscir fuori dai confini di quello che poteva fare. Quello che ha fatto l’ha fatto meravigliosamente bene, ma per me è più importante fallire” scriveva William pensando, forse, al proprio riuscitissimo Assalonne Assalonne! Poi La Capria prosegue sacrosanteggiando sulla questione dello stile e celebrando quello “non evidente”, ossia lo stile dell’anatra: l’uccello si danna e si affanna tumultuosamente sotto il pelo dell’acqua ma a guardarlo da lontano si direbbe scivoli quietamente sulla superficie.

   
A questi due aspetti si pensa inevitabilmente nel leggere “Gelo” di Thomas Bernhard (Adelphi,  356 pp.,  20 euro). Si tratta del suo primo romanzo, seppur non il primo scritto, e chissà, a conti fatti e pagine lette, se romanzo sia la definizione giusta per l’opera di uno che, in generale, affermava di fucilare sul posto ogni “storia” che avesse la bella idea di presentarsi all’orizzonte della pagina, e di un’opera come questa, poi, che nello specifico somiglia di più a una relazione e a un (auto) referto. 

  
In questo – ma sì! – romanzo cupo e concavo, il nichilismo e la cilindrata delirante di Thomas Bernhard crepitano sulla pagina senza alcun conforto per il lettore. O per meglio dire: senza quei conforti che pian piano, romanzo dopo romanzo, sarebbero arrivati, a rendere forse la prosa di Bernhard – il suo blues ossessivo, comico fino al tragicissimo, opprimente e testardo nella sua voluttà patologica di ripetizione – un fiume sempre più navigabile. Perché poi, sì, nei romanzi di Bernhard è arrivato lo stile: e lo stile si è preso sempre più spazio, fino a diventare il costrutto base dei suoi romanzi, che se da un lato nulla risparmiavano al lettore in termini di tetraggine, dall’altro tutto affidavano alla forma e molto concedevano in termini di ospitalità al lettore di livello: vero è che la sfilza dei rospi esistenziali da mandar giù leggendo le pagine di Bernhard non si è mai assottigliata, ma innegabile che il giro di blues si sia fatto, negli anni, sostanza più della sostanza, separandosi dalla sostanza e dando l’impressione che lo scrittore avrebbe potuto continuare così per sempre, di rampogna in rampogna, ad libitum.


Gelo è un’opera conclusa, di vetro, un resoconto, un arabesco di ghiaccio, una paralisi dell’intellegibile, dunque pienamente bernhardiana, ma bernhardiana pre-Bernhard. Un’opera che fallisce senza temere, in cui lo scrittore ancora non sapeva sé stesso e non cadeva nel fronzolo bernhardista (che amiamo, ma bisogna pur dirla tutta, no?).

  
“Una grande visione può scaturire da un’osservazione minima” dice a un certo punto il pittore che il protagonista, la voce narrante del romanzo, sta sorvegliando su mandato del medico. Ed è proprio così, la frase è la sintesi perfetta di queste pagine piene di mostruosi scuoiatori, di distillatori, di gendarmi. Il paesaggio è terrificante, aspro e lontano dalle poesiuole para-sapienziali sulla montagna-metafora che tanto va di moda. L’umanità è instupidita dalla propria stupidità e lui, Strauch, il pittore, il pazzo, è l’unico che fa la cosa giusta. Cioè quella sbagliata.
 

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