Una fogliata di libri

L'amor fati, un'idea millenaria poco di moda e mai così attuale

Michele Silenzi

Viviamo in un tempo in cui tutti vogliono essere compatiti e guariti, assistiti e salvati, tolti dalla nostra stessa condizione esistenziale. Questo è odium fati, che è forma di odio per ciò che il mondo è

Ogni inizio di una storia, come lo è simbolicamente l’inizio di ogni anno, porta con sé, per sua stessa natura, una promessa. Questo è il senso più profondo del ricominciare di nuovo: trovarsi dinanzi al mondo e aspettarsi di potere entrare nel vivo della propria esistenza, di poter agire, di non essere solamente spettatori. Ecco la promessa. La possibilità che la storia di cui ci aspettiamo di essere protagonisti sia già scritta ci tiene sempre in bilico tra il timore e l’esaltazione. L’idea di essere già salvati fin dall’inizio, l’idea di essere già condannati fin dall’inizio sembra ridurci a una condizione di assoluta impotenza o, al contrario, di pretesa onnipotenza (se tutto è stabilito possiamo dare libero corso a tutto ciò che sentiamo, tanto l’esito è già dato).

Al di là dell’una o dell’altra ipotesi, della solita domanda se siamo o meno liberi, se dobbiamo vivere comunque come se lo fossimo (che poi è lo stesso di dire “comportarsi come se Dio ci fosse”), una questione ritorna, mi sembra con sempre minor successo di pubblico ma non per questo con minor importanza, ossia quella dell’amor fati, dell’adesione profonda all’evento che è l’accadere della vita di ciascuno, indipendentemente dalla implicazione volontaria e libera di ciò che accade. 

Nulla di questo ha a che fare con la rassegnazione alla propria storia, tutt’altro. E forse proprio per questo l’amor fati, un’idea millenaria ma così poco di moda, appare di stringente attualità. È infatti l’esatto opposto della nostra epoca della suscettibilità in cui i sofferenti si sono moltiplicati all’infinito perché il semplice essere al mondo comporta sofferenza. Un tempo in cui tutti vogliono essere compatiti e guariti, assistiti e salvati, tolti dalla nostra stessa condizione esistenziale. Questo è odium fati, che è forma di odio per ciò che il mondo è.  

L’amore per ciò che viene, tuttavia, non è l’accettazione passiva di un destino. Amare in questo caso non è un atto di abbandono, ma un atto volitivo di adesione a ciò che accade. Adesione intellettuale, fisica e attiva, non stasi rassegnata a ciò che c’è ma momento di riconoscimento di sé, della propria storia e di adesione a quel destino. Ma questa adesione è il passo successivo, o forse quello complementare, dell’invito nietzschiano, ma ben prima greco, a divenire ciò che si è. 

L’amor fati è, in fin dei conti, l’atto di aderire alla propria storia, di viverla fino in fondo indipendentemente dalla nostra impossibile cognizione del fatto di essere assolutamente liberi o assolutamente pre-destinati. È una spinta a vivere la propria storia in maniera spregiudicata, come avviene in ogni avventura intellettuale. Non c’è movimento del pensiero, che possa essere di una qualche importanza, che non si muova senza limitazioni (che non siano quelle inevitabili della nostra stessa costituzione). Probabilmente, questo compito dell’aderire a se stessi, ossia a chi siamo stati destinati a essere è il primo atto di libertà e richiede un’energia radicale, fino ai limiti del tollerabile. 

L’adesione al proprio destino, ossia a se stessi, implica inevitabilmente e in modo paradossale, non la serena accettazione, ma la lotta e la contraddizione lacerante tra ciò che si è e si diviene, e ciò che si vorrebbe essere e diventare. L’amor fati implica una corsa contro il tempo, richiede, per dirla con Dylan Thomas, essere furie contro il morire della luce, non si tratta certo di andarsene docili nella notte. Napoleone, l’uomo più volitivo, faceva l’amore con il fato, e chi più di lui, vero Prometeo, infuriava contro di esso pur non volendo fare altro che compierlo?

Questa spinta incessante ad aderire a sé e a un possibile destino, questo sforzo titanico e allo stesso tempo radicalmente intimo, è amor fati. L’atto d’amore che ci salva dall’essere fantasmi in una macchina, indipendentemente dal nostro effettivo grado di libertà.

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