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Le brigate rosse a Genova. Il libro di Sergio Luzzato

Giampiero Mughini

Dalla vita del militante Riccardo Dura all'assassinio del sindacalista Guido Rossa, il ritratto di una città macchiata dai sanguinosi anni di Piombo. La storia d’Italia che era cronaca quotidiana dell’altro ieri

Sessantatreenne, il torinese Sergio Luzzatto è uno degli storici più rappresentativi della sua generazione. Era un’impresa avvincente quella di voler raccontare la storia delle Brigate rosse a Genova, una delle città italiane che hanno fatto da drammatico capoluogo delle loro gesta criminali. E difatti le 600 accuratissime pagine del suo recente Dolore e furore (Einaudi, 2023) le ho lette con una  commozione che cresceva di episodio in episodio, ed erano tantissimi quegli episodi belluini di una cronaca italiana soltanto dell’altro ieri. Uno di quei brigatisti genovesi che non avevano l’aria di scherzare, il professore universitario Enrico Fenzi (nato nel 1939), che s’era poi ravveduto al punto da scrivere uno dei libri più intelligenti su quel che erano stati loro brigatisti, l’ho ben conosciuto. Era venuto a cena nella mia casa romana di via della Trinità dei Pellegrini, per poi restarvi a dormire. L’indomani sarebbe  stato testimone di nozze al matrimonio di Valerio Morucci, anche lui divenuto un mio amico da quanto s’era fatto estraneo e remoto dal brigatista che la mattina del 16 marzo 1978 aveva aperto il fuoco a via Fani. 


Su tutte mi ha tramortito una delle fotografie accluse al ricco testo di Luzzatto, la foto del corpo di un eroe della Repubblica di cui non ricordavo nulla. Il trentaseienne commissario di polizia Antonio Esposito, che il 21 giugno 1978 due brigatisti genovesi avevano colpito alle spalle con dodici colpi di pistola mentre si apprestava a scendere dall’autobus 15 con cui ogni giorno si recava al lavoro in commissariato. Da quando nella sua qualità di membro dei nuclei antiterrorismo di Torino e di Genova aveva efficacemente fronteggiato l’operato dei brigatisti, ne era un avversario implacabile. Era stato lui difatti a Genova a individuare per primo “l’irreperibilità” di protobrigatisti quali Giuliano Naria e Rocco Micaletto, sospettati del sequestro di persona di Vincenzo Casabona, capo del personale di Ansaldo Meccanico Nucleare. Pur sapendo di essere un bersaglio predestinato, Esposito aveva rifiutato la scorta né portava addosso un’arma con cui eventualmente difendersi. Uno dei suoi due assassini era il criminale per antonomasia tra i brigatisti genovesi, l’ex militante di Lotta continua Riccardo Dura nato a Roccalumera nel 1950 che Luzzatto elegge a protagonista “negativo” per eccellenza del suo racconto. È lui difatti, sei mesi dopo, a firmare l’altro e clamoroso fatto di sangue ascrivibile ai brigatisti genovesi. Per avere denunciato un operaio dell’Italsider di Genova che distribuiva in fabbrica a tutto spiano volantini filobrigatisti, l’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa (nato nel 1934) era entrato a sua volta nel mirino dei terroristi rossi. Alle 6.35 della mattina del 24 gennaio 1979 erano tre i brigatisti che lo attendevano mentre lui uscito da casa stava montando sulla Fiat 850 con cui era solito andare al lavoro. I tre erano Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Fiorenzo Carpi.

Il loro intento originario era di gambizzare Rossa, quel che fanno in un primo momento con quattro colpi di pistola per poi allontanarsi. Solo che Dura è come se ci ripensasse, come se quella punizione del sindacalista comunista gli sembrasse troppo lieve, e dunque lui torna indietro ed esplode un quinto colpo di pistola diretto al cuore di Rossa. Un assassinio che non era stato messo nel conto dal vertice delle Br, tanto che qualcuno propone di espellere Dura dall’organizzazione. Di tutti quei “duri”, lui era il più “duro” di tutti. E seppure un ex militante di Lotta continua che lo aveva ben conosciuto a suo tempo, Andrea Marcenaro, avesse di lui una memoria che non lasciava presagire il genere di canagliate di cui Dura si renderà colpevole più tardi. Così come sono contraddittorie le versioni che del personaggio daranno i vari “pentiti” delle Br, c’è chi ricorda che era stato soprannominato “Pol Pot” da quanto predicava ferocia a ogni pie’ sospinto e chi invece lo descrive come un entusiasta della loro causa ma non come uno assetato di sangue.D ivenuto membro dell’esecutivo delle Brigate rosse (e dunque al vertice dell’organizzazione criminale), in un primo momento Dura era stato designato a far parte del drappello di brigatisti che avrebbe agito a via Fani.

All’ultimo momento decisero di no. A poco più di un anno dall’assassinio di Rossa, quando l’ex br Patrizio Peci si mette a spifferare nomi e indirizzi dei suoi ex compagni, una delle sue informazioni più preziose è un indirizzo genovese a via Fracchia 12 che funge abitualmente da riparo dei brigatisti. La notte del 28 marzo 1980, un reparto dell’arma dei carabinieri capeggiata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa bussa a quell’indirizzo. Ne hanno un’immediata risposta sotto forma di colpi d’arma da fuoco  che feriscono gravemente uno dei carabinieri, che ci rimetterà un occhio. Quel che succede dopo è assieme certo e incerto. Di certo c’è la morte dei tre brigatisti che quella notte stavano dormendo in via Fracchia – lo stesso Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciareli – nonché della titolare dell’appartamento,  la trentatreenne Annamaria Ludmann di cui è dubbio se fosse davvero armata. Di incerto c’è la modalità della loro morte. Sono tutti caduti sotto la probabile tempesta di fuoco scatenata dai carabinieri? Possibile, o forse no. Di certo è morto in un altro modo Dura. Gli hanno sparato un colpo di pistola alla nuca da una distanza attorno ai trenta centimetri. Ovvero lo hanno ucciso come un cane. È agghiacciante la foto di lui, in mutande con addosso una maglietta e un grumo di sangue alla nuca, steso a faccia in giù nel corridoio di casa Ludmann. Non meritava più che questo l’assassino di due italiani perbene quali il commissario Esposito e il sindacalista Rossa? Ciascuno di voi risponda come crede. E comunque al funerale di Dura c’era soltanto la madre.

 

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