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uffa!

Un ricordo di Paolo Missigoi, libraio. Un'emozione intatta cinquant'anni dopo

Giampiero Mughini

Tutto questo tempo è niente se penso a cosa ho provato nell’entrare per la prima volta in quell'antro attiguo a piazza Navona. La gioia di scoprire gli scatti della Woodman e tanti libri da collezione

E dire che sono passati cinquant’anni abbondanti. Solo che quando Giuseppe Casetti mi ha telefonato a dirmi che il suo vecchio compare di  libreria, Paolo Missigoi, è morto il 9 giugno scorso ormai sperduto a se stesso m’è venuto un sobbalzo. Cinquant’anni sono niente se penso all’emozione provata nell’entrare per la prima volta in quel loro antro attiguo a piazza Navona, la prima libreria antiquaria italiana a offrire le edizioni originali di letteratura italiana del Novecento a un tempo in cui un libro siffatto di Alberto Savinio o di Carlo Emilio Gadda arrivava a costare al massimo 25 mila lire. Di quei libri non ne sapevo nulla, e meno che mai intendevo che cosa avesse di speciale una prima edizione, e dire che nel 1970 mi ero laureato in Lingue e letterature moderne e avevo superato col massimo dei voti un esame di Letteratura italiana contemporanea. Durante il corso universitario, mai una sola volta avevo sentito pronunciare la parola futurismo. Fino al giorno che nell’antro di cui Giuseppe e Paolo erano sovrani espertissimi vidi dei libri riposti come entro a una bacheca, libri di cui già i titoli e le immagini di copertina erano attizzanti. Chiesi di che diavolo di libri si trattasse. Mi risposero che erano dei libri futuristi italiani e che loro li vendevano a 30 mila lire l’uno per l’altro. Mi dissero che uno che li collezionava era l’esperto d’arte romano Maurizio Fagiolo Dell’Arco (nato nel 1939, morto nel 2002), uno che conoscevo di fama ma non ancora di persona. Mi pare che fossero stati loro a fornirmi un librino/catalogo del pittore e collezionista Pablo Echaurren dov’erano schedati i 52 libri delle Edizioni futuriste di poesia di Filippo Tommaso Marinetti, uno di cui in quel momento sapevo solo che Gabriele d’Annunzio gli aveva dato dell’imbecille. Man mano conobbi gli altri primattori della bibliomania romana, a cominciare dal libraio Gildo Maresca, il quale aveva allora una libreria di fronte a Castel Sant’Angelo, sull’altra sponda del Tevere. Quando ci entrai per la prima volta a chiedergli se ne avesse prime edizioni di letteratura italiana del Novecento (me lo confesserà più tardi, quando eravamo divenuti amici) mi rispose che no, che non ne aveva. E questo perché al primo sguardo aveva intuito che io nella materia ero ancora uno senza arte né parte, e dunque non meritavo la sua attenzione. Conobbi più tardi quello che a Roma è stato il maestro di noi tutti in fatto di libri rari, Roberto Palazzi, quello che una notte s’era appena tagliato la gola in un vicolo di Monteverde quando gli dedicai amorosamente il mio libro del 2009, La collezione.

L’exploit ai miei occhi il più indimenticabile del duo Casetti/Missigoi era stata la mostra che nella loro libreria attigua avevano dedicato alle fotografie che un’americana di nome Francesca Woodman si autoscattava durante i mesi del suo soggiorno romano, fotografie volte come ad esplorare i suoi subbugli interiori. (La Woodman sarebbe morta suicida a 22 anni.) Foto di indicibile suggestione che appartengono alla storia la più alta della fotografia contemporanea e che i nostri due eroi mi pare vendessero all’inezia di 50 mila lire l’una; bestia che ero, a quel tempo non mi ero ancora volto a comprendere e a collezione le foto. Il duo si sarebbe spezzato poco dopo, né l’uno né l’altro erano due caratteri facili. Dopo la loro rottura Casetti avrebbe aperto una bottega di libri e di foto (dove quelle della Woodman toccavano quotazioni da capogiro) nel ghetto romano, dov’è ancora vitalissimo il suo lavoro da antiquario. Paolo invece sposò una francesina, Ondine, anch’essa innamoratissima ed espertissima di libri da collezione. Loro due avevano preso casa dalle parti della Stazione Tiburtina, dove tenevano i loro libri e dove ricevevano i possibili clienti. Quando mi telefonavano ad offrirmene qualcuno, io prendevo un bus che ci metteva 40 minuti buoni per arrivare dalle loro parti, percorrevo un bel pezzo di strada a piedi e poi montavo al secondo piano del palazzo dove abitavano. Dapprima cenavamo, discorrendo per tutto il tempo di libri e di librai. Dopo di che passavamo ai tesori che andavano svelandomi. Non so dire tra marito e moglie chi dei due fosse più intelligente nel vantare le caratteristiche dei libri che mi offrivano, ed erano talvolta dei libri di cui sino a quel momento non sapevo nulla. Mi ricordo i volti, i loro gesti sempre all’insegna di un amore infinito per i libri. Ricordo il momento in cui tirarono fuori da sotto un divano letto la collezione completa di Omnibus, il settimanale che Longanesi aveva fondato nel 1937 a farne il capostipite e il capolavoro nella storia del giornalismo italiano a rotocalco. Quando la discussione sui prezzi si faceva tesa, Paolo andava in bagno credo a sniffare qualcosa.

Ondine mi raccontò una volta che aveva assistito alla vendita all’asta del comparto surrealista della più importante collezione di letteratura francese contemporanea. Il tutto avveniva in una piccola aula dove gli astanti erano tutti in piedi. Al momento in cui venne battuto uno dei lotti più strabilianti, un gruzzolo di disegni erotici ognuno dei quali era da farti strabuzzare gli occhi, la lotta si fece accesissima tra due collezionisti e finché, arrivati al prezzo di aggiudicazione equivalente a cento milioni di lire di più di quarant’anni fa, uno dei due collezionisti si arrese. A quel punto il pubblico, rimasto a lungo in silenzio, scoppiò in una sorta di applauso che mi immagino volesse essere un omaggio alle cose belle che vale la pena comprare a costo di pagarle un sacco di soldi. E’ lo stesso applauso commosso che rivolgo alla memoria di Paolo, alla sua tenacia e alla sua competenza nell’avere cercato i bei libri e nell’avermene fatti conoscere tanti. Addio Paolo, te ne resto grato. Quanto a Ondine, era morta di un tumore molti anni fa.

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