Anna Larina con Ottaviano Del Turco (Olycom)

uffa!

La vedova Bucharin e i nostri conti mai chiusi con l'italocomunismo

Giampiero Mughini

Anna Larina, seconda moglie del "ragazzo d'oro" dei bolscevichi, eliminato da Stalin, fu un monumento alle tragedie del Novecento. La invitò in italia Giuseppe Boffa, primo corrispondente dell'Unità da Mosca, uno dei pochi che si era ricreduto sull'Unione sovietica "paradiso in terra"

Nel paese che milioni di imbecilli proclamavano essere il paradiso su questa terra, e più precisamente nell’umida cella di una prigione di Novosibirsk – la terza città più grande della Russia sovietica – nell’agosto 1938 era reclusa da quattro mesi una ragazza russa ventiquattrenne. Anna Larina, che era bellissima quando poco più che quindicenne aveva incontrato Nikolaj Ivanovich Bucharin, il “ragazzo d’oro” di quel gruppo di avventurieri della politica che nell’ottobre del 1917 aveva arrovesciato il governo zarista e dunque sconvolto la storia del mondo, l’uomo che aveva poi sposato nel 1934 malgrado avesse 26 anni in più di lei. Sto narrando dall’edizione inglese del libro (This I cannot forget, 1993) che Anna Larina pubblicherà in Russia in 650 mila copie nel 1988, l’anno in cui Michail Gorbacëv aveva ufficialmente riabilitato Bucharin. A cinquant’anni dal suo martirio.

Bucharin era stato fatto arrestare il 27 febbraio 1937 da uno Stalin che lo accusava di trame “controrivoluzionarie” e dunque di “tradire” la patria del socialismo. Poco prima di essere arrestato Bucharin era riuscito a far imparare a memoria alla moglie una sorta di “testamento politico” che lei rivelerà al mondo una volta uscita dal gulag dopo vent’anni di detenzione. Poco prima che lo afferrassero, messosi in ginocchio Bucharin le raccomandò di educare il figlio da buon “bolscevico”. Glielo ripeté due volte, segno che non ci voleva stare ad ammettere che erano dei rifinitissimi bolscevichi quelli che si accingevano ad annientarlo moralmente e fisicamente.

Dopo il processo e la relativa condanna a morte, il 13 marzo 1938 Bucharin viene assassinato dagli sgherri di Stalin in condizioni mai chiarite, probabilmente né più né meno di come si fa con un bue che sta andando al macello. Dapprima internata in un campo, Anna Larina era stata confinata nella cella di cui ho detto prima. Non so se sia vero quello che avevo letto, che in quella cella tenessero un certo livello di acqua in modo che la prigioniera stesse costantemente con i piedi a mollo. Del resto nel paese che era il paradiso su questa terra le cose erano andate peggio alla prima moglie di Bucharin, quella con cui era rimasto in termini amicali. La arrestarono e misero in cella. Lei che s’era preparata alla bisogna, ingoiò del veleno che teneva con sé. I medici di Stalin la salvarono, sicché rimase in cella per alcuni mesi al modo di un corpo inerme. Finché non la trassero fuori e la fucilarono, nel 1940. Laddove la preghiera che nell’agosto 1938 la vedova Bucharin rivolse per iscritto ai suoi aguzzini, che preferiva la morte istantanea a una lenta distruzione e dunque chiedeva che la fucilassero, non venne esaudita. Anna Larina continuò per vent’anni a girovagare per le celle e i campi di detenzione dello sterminato Arcipelago Gulag. Dove le capitava di incontrare la moglie di un generale in disgrazia che s’era vista comminare un aggravio di pena di otto anni per aver mormorato a un’altra detenuta che le magliette ricamate fatte in Italia erano molto belle. Altro che se questa non era un’esaltazione del capitalismo.

 

A proposito, lo sapete senz’altro che in tutto il ventennio fascista furono comminate una dozzina di pene di morte o forse qualcuna in più. In Unione sovietica nel solo 1937 ne fucilarono 750 mila. Vi risulta che quei milioni di imbecilli che avevano preso a modello la Russia sovietica, e tra loro il fior fiore dell’italocomunismo degli anni Cinquanta, abbiano mai chiesto scusa all’umanità? A me non risulta. O in pochissimi casi. Quello di Antonello Trombadori, il vicecomandante dei gap romani, che nella sua giovinezza era stato un comunista settario e aggressivo, e di cui divenni un amico fraterno quando lui a sua volta era divenuto un anticomunista della più bell’acqua. Ricordo trent’anni fa una cena milanese a tre, lui, Leonardo Sciascia e io. Ricordo il momento in cui ci venne presentato il conto. Per impedire a Leonardo di pagarlo lui, avresti dovuto ucciderlo.

Solo che mi accorgo adesso che non sto dando a Cesare quel che è di Cesare. Anna Larina io l’ho avuta di fronte, più o meno trent’anni fa, in una sala romana dove l’aveva convocata Giuseppe Boffa, quel grande giornalista che all’alba dei Cinquanta era stato prima di Maurizio Ferrara il primo corrispondente dell’Unità da Mosca, uno che per un tempo della sua vita aveva creduto che l’Urss fosse il paradiso su questa terra. Solo che il Boffa degli anni Novanta (padre di Massimo Boffa, allora mio pregiato collega al Panorama) non era il Boffa degli anni Cinquanta, il tempo aveva raschiato via le sue convinzioni. Era stato lui a invitarmi in quell’aula romana, era lui che aveva fatto venire Anna Larina in Italia, fu lui a presentarmela e mentre io mi avvicinavo a lei, seduta dietro un tavolo, mi tremavano le gambe da quanto mi reputavo umanamente irrilevante innanzi a un tale monumento vivente alle tragedie del Novecento. Non molto tempo dopo Boffa scrisse un libro, il Memorie dal comunismo. Storia confidenziale di quarant’anni che hanno cambiato volto all’Europa del 1998, di cui io parlai favorevolmente su Panorama. L’articolo era uscito da un niente, quando mi telefonò Massimo Boffa a dirmi che suo padre era appena morto. C’è poco da fare, non la smetteremo mai di fare i conti con l’italocomunismo, e questo perché nelle sue file scorreva il meglio di due o tre generazioni di italiani, Pietro Ingrao, Alfredo Reichlin, Giuseppe Di Vittorio, Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte, Bruno Trentin, Luigi Pintor e per quanto lui abbia scritto una volta che il disastro di una navicella spaziale americana in cui morirono non ricordo più quanti non gli dispiacesse così tanto dato che si trattava di americani, Giorgio Napolitano, il giovane Antonello Trombadori, un giornalista quale Aniello Coppola. Devo continuare?