Maurizio Ferrara (foto Olycom) 

uffa!

Il libro-interrogatorio con Maurizio Ferrara, snobbato da quelli "di sinistra"

Giampiero Mughini

"Ferrara con furore", l'intervista a tutto campo a un comunista aperto alle sfide da parte di un dannato "cane sciolto", affascinato dalla storia delle famiglie borghesi che avevano costituito il nocciolo più vitale dell’italocomunismo

Era una cucina relativamente grande, in un appartamento al secondo piano di una straduzza romana che moriva sul retro di Piazza Navona. La cucina della casa dove vivevano Maurizio e Marcella Ferrara e dove per lungo tempo hanno vissuto i loro due figli, Giorgio e Giuliano. Una cucina al cui desco mi sono seduto tante volte nei quattro o cinque mesi del 1989 in cui Maurizio e io stavamo apprestando una sorta di duello intellettuale, lui un comunista aperto a tutte le sfide e a tutte le domande ma che non voleva rinnegare un ette della sua storia e della sua identità, io un dannato “anticomunista” affascinato dalla storia delle famiglie borghesi che avevano costituito il nocciolo più vitale dell’italocomunismo. Il libro/intervista uscì dall’editore Leonardo nel gennaio 1990 con il titolo Ferrara con Furore. Vendette poco e niente, qualcosina più di mille copie. Vedo adesso che su Amazon ne offrono una copia a 60 euro. E’ uno dei più bei libri mai pubblicati in Italia su quel che erano davvero, quali libri leggevano, con quali donne si sposavano, i personaggi intellettualmente più rilevanti di quel Pci che è stato l’unico partito comunista al mondo dal volto umano. Il ricordo di quella cucina mi è venuta subitanea alla mente quando, solo per un istante, le condizioni di salute di Giuliano erano sembrate allarmanti.

Era stato Maurizio, che nel 1989 aveva 68 anni e dunque era molto più giovane di quanto lo sia io adesso, a dirmi che avrebbe voluto farlo quel libro/interrogatorio. Da tempo riceveva richieste di scrivere la sua autobiografia, solo che lui preferiva invece un confronto con chi aveva una storia diversa dalla sua: “Io sono uno che ha sempre proclamato con forza la sua ‘appartenenza’; tu sei uno che rivendica caparbiamente la sua ‘non appartenenza’, il suo non schierarsi con nessuno. Trovarmi di fronte un membro della nobile confraternita dei cani sciolti, e tuttavia interessato alla storia e alla tematica della sinistra, rispondere a un interrogante che so implacabile ma leale, mi stimola”. Sono le parole di Maurizio che stanno in testa al nostro libro.

Sì, era una storia di famiglie borghesi italiane del Novecento, e che famiglie. Quella di Ferrara cominciava dal papà Mario, uno dei tenori del liberalismo italiano tra le due guerre, proseguiva con suo fratello Giovanni che sarebbe stato uno degli intellettuali chiave del Partito repubblicano di Ugo La Malfa, si prolungava con il figlio Giuliano, dapprima uno che aveva fatto il politico di professione nel Pci torinese, più tardi uno che ne era uscito rumorosamente sino a manifestare una sua pronunziata empatia per quel craxismo che negli anni Ottanta faceva da bestia nera del Pci. Poi c’era la famiglia di origine di Marcella, lei che per un lungo tempo era stata la preziosa collaboratrice di Palmiro Togliatti, dico la famiglia De Francesco, le due “sorelline” Marcella e Giuliana, quella che avrebbe sposato Franco Ferri, uno che era stato un gappista comunista nella Roma del 1943-1944 (loro due genitori del notissimo fotografo Fabrizio Ferri), per poi morire suicida nel 1975. Famiglie che si intricavano l’una con l’altra, i Ferrara con gli Amendola, il padre Giovanni (sodale di Mario Ferrara) e i suoi figli che tutti e tre avevano scelto il Pci nel secondo Dopoguerra. I Ferrara con Antonello Trombadori e sua moglie Fulvia. 

E a proposito del rapporto di Maurizio con la famiglia Amendola e con la sua storia, c’è un piccolo particolare che da solo vi spiega la temperie del libro da cui sono partito. Stavamo parlando dell’ignobile aggressione squadrista a Giovanni Amendola (era la terza che subiva) il 25 luglio 1925, mentre lui era in auto sulla strada da Montecatini a Pistoia, un’aggressione che indurrà Amendola a riparare in Francia e più precisamente a Cannes, dove morrà nove mesi dopo, il 7 aprile 1926. Durante i nostri colloqui e nel raccontare questa tragedia Maurizio usa a un certo punto le seguenti e testuali parole: “Amendola morì anche di cancro”. Al che io ebbi un soprassalto. Fin da ragazzo avevo imparato che Amendola era morto delle conseguenze dell’aggressione. Solo che qualche dubbio mi era venuto quando avevo letto i particolari fisici della cosa: che Amendola era rimasto in auto sul sedile retrostante e che quei bastardi lo avevano colpito con bastoni e randelli attraverso i finestrini. Niente che attenuasse la barbarie dei loro gesti, ma che metteva in dubbio che Amendola ne fosse stato fisicamente squarciato. Che poi il cancro abbia trovato facilmente la strada in un uomo fisicamente provato, non c’era dubbio. Solo che non puoi scrivere che uno è morto “anche di cancro”. Se aveva un cancro, è morto di quello. Dopo un estenuante dialogo, Maurizio si risolse a scrivere come sto dicendo, che Amendola era morto di cancro. Solo che quando il libro uscì, uno dei figli ancora viventi di Amendola insorse contro le parole di Maurizio, ossia contro la verità dei fatti. Se non ricordo male inviò una lettera a un giornale, al che Maurizio provò a rabbonirlo pubblicamente, beninteso senza smentire quello che era stato scritto e stampato e che a lui era certo arrivato da papà Mario. 

L’ho detto, era il romanzo che raccontava da dentro la storia di alcune famiglie italiane d’eccellenza. Perché se ne vendettero così poche copie? Semplicissimo. Il cognome “Ferrara” batteva in quel momento ogni record quanto all’essere il bersaglio dell’odio ideologico e dell’invidia nei confronti di Giuliano da parte del lettore medio “di sinistra”, quello che non poteva non essere il destinatario di un libro siffatto. Franco Cordelli, mio amico da sempre, mi confidò che aveva creduto che il libro fosse un’intervista al Ferrara “traditore” e perciò non lo aveva comprato. Quando si accorse dell’errore, lo divorò in una notte. E quanto all’essere un “traditore”, anch’io facevo la mia porca figura dopo avere scritto Compagni addio.