Eugenio Scalfari con le figlie Donata ed Enrica (Ansa) 

uffa!

Il grande giornalismo e le piccole bugie. Due o tre cose che so di Scalfari

Giampiero Mughini 

L'energia intellettuale, spietata sino alla fascinazione, con cui ha assunto il timone di un quotidiano che voleva togliere la supremazia editoriale nientemeno che al Corriere della Sera. Note a margine al documentario che le figlie gli hanno dedicato

Inenarrabilmente toccante questo documentario che le due figlie di Eugenio Scalfari hanno dedicato al padre, e che è andato in onda lo scorso sabato pomeriggio su Rai 3. Un omaggio marchiato dall’affetto filiale al più grande giornalista italiano del Novecento, a uno che ha capitanato un quotidiano più possente di un partito nel modellare la sensibilità di noi italiani, a un uomo di 97 anni che a tutt’oggi nel rispondere alle domande che gli rivolgono non sbaglia una virgola, e che a tutt’oggi conserva lo charme di quando ammaliò i salotti più importanti d’Italia, i salotti dove si aggirava la sinistra italiana la più benestante. 

  

Pur non frequentandolo, Scalfari era come impresso nella mia anima di lettore di giornali. Avevo imparato da lui, quando dirigeva il settimanale L’Espresso, a capirci qualcosa dell’economia italiana e degli uomini che in essa contavano. Certo che ai debutti della mia vita nei giornali mi sarebbe piaciuto far parte di quella sua squadra che diede vita al giornale il più innovativo e il più sapiente nella storia del giornalismo italiano del secondo dopoguerra. Non che avessi giudicato un gran libro quello che lui aveva scritto sull’Italia del tempo in cui “andare a via Veneto” era indispensabile, perché non lo era. Quel che era spietato sino alla fascinazione era l’energia intellettuale con cui lui aveva assunto il timone di un quotidiano che voleva togliere la supremazia editoriale nientemeno che al Corriere della Sera, e ci riuscì finché a via Solferino non arrivò Paolino Mieli, che pure di Scalfari era stato un allievo. Così come era abilissimo il modo in cui Scalfari si collocò a ridosso del Pci di Enrico Berlinguer suggerendogli come diventare più moderno, più europeo.

 

Scalfari aveva puntato sul Pci, e non sull’infinitamente più moderno Psi di Bettino Craxi perché i lettori comunisti dei quotidiani erano tre o quattro volte più numerosi dei lettori socialisti. Non che i debutti di Repubblica fossero stati facili, 70 mila copie vendute che non bastavano a reggere i costi di quella redazione di gran qualità.

 

Da collaboratore del Mondoperaio andai a intervistare Scalfari e ovviamente gli chiesi quante copie vendessero in quel momento. Mi guardò, e con una espressione che è come se la avessi innanzi agli occhi mi rispose: “Caro Mughini, si figuri se a lei non dico esattamente come stanno le cose. Noi attualmente vendiamo 140 mila copie al giorno”: Era il doppio della verità, ovviamente io scrissi quello che lui mi aveva detto e non che giudicassi negativamente le sue parole. Per essere un uomo di comando e di potere, per lui l’utile veniva prima del vero. In questo non si differiva dagli altri uomini di comando e di potere, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi. Il che non amputava di un ette l’ammirazione che avevo per lui, non diversa da quella che avevo per Andreotti o per Craxi. La politica e la grande editoria non sono mestieri per infanti o per uomini leggiadri.

    

Poi venne il ratto di Aldo Moro, e Scalfari si giocò per intero la carta dell’adesione alla linea della fermezza. In politica devi fare come in politica, lo aveva scritto Niccolò Machiavelli. Il suo giornale crebbe, crebbe, crebbe. Fino a toccare le 600 mila copie vendute. Scalfari scriveva editoriali contro “i poteri forti” italiani, il suo giornale era forse il più forte di tutti nello sbucciarti la pelle. Chiedetelo lassù in cielo a Eugenio Cefis, che ne sa qualcosa. 

  

Lo avevo ascoltato alla cerimonia di presentazione della Repubblica, dove disse che il suo giornale mai e poi mai si sarebbe occupato di sport. Qualche anno dopo assunse con gran copia di denari il fuoriclasse del giornalismo sportivo, Gianni Brera. Francesco Merlo, un fuoriclasse tra i giornalisti non ortodossamente “comunisti”, lo assunse Ezio Mauro, ma sono convinto che Scalfari avrebbe fatto lo stesso se fosse stato ancora lui il direttore di Repubblica. Una volta ho scritto che Scalfari era diventato il giornalista più ricco di Europa, e lui poco dopo scrisse senza fare il mio nome che ad attribuirgli questo titolo era stato “un mascalzone”. Non aveva capito che volevo fargli un gran complimento. Lo avevo scritto di un calabrese che per suo merito e talento era divenuto il giornalista più ricco d’Europa. Più di così? O invece avrei dovuto scrivere la panzana che lui era stato il giornalista più alto nel pronunciarsi a favore del Bene? 

  

Ripeto, non ho mai smesso un solo secondo di ammirarlo. Mai ho cominciato a leggere un suo editoriale senza arrivare fino all’ultima riga, affascinato da un’ingegneria intellettuale che non aveva cesure. E quanto alla sua vita personale, diviso com’era tra due donne e tra due opzioni familiari, anche quello me lo rende umano. Sono stato una volta in casa di Serena Rossetti, la donna che divide oggi la sua vita, una casa nella cui stanza d’ingresso c’è un bellissimo quadro di Antonio Donghi che Serena aveva comprato in onore di Eugenio.

 

Una volta avevo scritto (perché me lo aveva raccontato Mario Pirani) di una gran serata nella casa di via Nomentana in cui Scalfari viveva allora con sua moglie. Quando apparve l’articolo, Scalfari telefonò a Paolino Mieli pregandolo di dire a Serena che io ero un gran bugiardo, dato che a Serena aveva detto che quella sera lui era impegnato in una riunione del consiglio di amministrazione di Repubblica. Paolino telefonò a Serena a impastrocchiare la cosa. Me lo ha raccontato Paolino, un mio amico fraterno. Anche in quella occasione Scalfari mi apparve umanissimo. In trent’anni anch’io ho mentito due o tre volte a Michela. Credo che Scalfari sappia quanto io lo reputi un protagonista eccezionale, e tanto più che non gli ho mai chiesto né avuto nulla. E questo di un’ammirazione del tutto disinteressata, non è che tra noi giornalisti capiti tutti i giorni.

Di più su questi argomenti: