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I misteri di Eugenio Cefis

Adriano Sofri

Raccontare la sua storia per ripercorrere gli anni di un'Italia losca, fatta di intrighi politici e finanziari. Mattei, De Mauro, Pasolini, persino la morte di Rino Gaetano. Un libro sulla sua leggenda nera

Esce oggi un libro seducente (perché sedotto, anche) di Paolo Morando, “Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri”, Laterza, pp. 375. Eugenio Cefis: chi era costui? Succede che di un personaggio dalla reputazione enorme si sappia meno che di un carneade. Cefis, nato nel 1921, militare e partigiano nell’Ossola, dopo la morte di Enrico Mattei (1962) fu il padrone dell’Eni e poi, dal 1971, della Montedison, cioè della chimica (e buona parte della finanza) italiana; fino al 1977, quando improvvisamente decise di lasciare rango e Italia alla volta della Svizzera e del Canada. Morì nel 2004. Ebbe costantemente attorno a sé un’aura di sospetto, rafforzata dalla riluttanza alle apparizioni pubbliche e dalla spregiudicatezza nel maneggiare i giornali e nel comprare gli avversari. Quest’aria losca diventò via via, lui vivo e ancora di più dopo, una ineguagliata leggenda nera. Gli si attribuì, per restare ai sommi capi, la regia dell’omicidio di Mattei (morto in un incidente del suo aereo privato, in realtà un attentato), la fondazione della loggia P2, il patrocinio di colpi di stato, la scomparsa di Mauro De Mauro, che indagava sulla morte di Mattei, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (e, qualcuno aggiungerebbe, di Rino Gaetano). Una simile trama passò attraverso tappe numerose: pamphlet anonimi o pseudonimi, campagne di stampa, carte giudiziarie, vociferazioni più o meno informate. Cefis sta al centro di un libro influente come quello di Scalfari e Turani, “Razza padrona. Storia della borghesia di stato” (1974) e soprattutto del romanzo che Pasolini stava scrivendo quando nel 1975 fu ucciso, e pubblicato postumo nel 1992, “Petrolio”. Tremende una per una, le imputazioni sono state cucite insieme fino a fare di Cefis il principale burattinaio di un’epoca piena di concorrenti, dai politici come Andreotti ai finanzieri mafiosi come Sindona ai venerabili maestri come Licio Gelli. Una spettacolosa trama, da Guido Pasolini, partigiano osovano ucciso diciannovenne da partigiani garibaldini nel 1945, a Pier Paolo fratello maggiore, è raccolta in uno zibaldone di 720 pagine, fresco di stampa, “Malastoria. L’Italia ai tempi di Cefis e Pasolini”, di cui è autore Giovanni Giovannetti, gran fotoreporter e poi editore con la sua Effigie. Morando se n’è valso come di un punto d’arrivo della “vertiginosa ‘pasolineide’ scatenata ormai da una quindicina d’anni”. La parte iniziale del suo libro la riepiloga, evitando intanto i giudizi, e scegliendo passaggi che lasciano il lettore a bocca aperta. Me, per esempio, nel capitolo in cui si illustra “E Berta filava”: “E filava con Mario e filava con Gino e nasceva il bambino che non era di Mario e non era di Gino”. Uno svelatore ha sostenuto che Mario era il segretario del Psdi (il partito socialdemocratico) Mario Tanassi, e Gino il ministro democristiano Luigi Gui, associati nello scandalo Lockheed, 1976. E il fondatore della industria aeronautica Lockheed si chiamava Robert - Bert, Berta… Il mio scetticismo – di principio, dunque infondato – si esacerba di fronte alla riduzione del bel dadaismo di Rino Gaetano a un messaggio cifrato, soprattutto in quel capolavoro di “Spendi spandi effendi”. E’ la parte in cui meglio si accerta come, allo sguardo del paranoico, o del geloso, ogni dettaglio valga a confermare ed esaltare il sospetto.  

 

Morando, come ho detto, riepiloga e non interviene se non qualche volta, a correggere sovrainterpretazioni palesi. Sul ruolo di Cefis sottotenente ventunenne nella Slovenia occupata del 1941, e teatro di efferatezze degli alti gradi fascisti. O sul ruolo di comandante partigiano bianco in Valdossola, tanto più che Cefis di quella stagione cruciale fu sempre incline a parlare senza riserve. 

 

Morando ha interpellato fra gli altri il già generale Gianadelio Maletti, già capo del Reparto D del Servizio informazioni difesa, i cui interventi dal Sudafrica si moltiplicano mentre si avvia a compiere, a settembre, 100 anni. Maletti era stato compagno di corso, di un anno più anziano, di Cefis all’Accademia di Modena. Nega che Cefis avesse mire politiche, mirava piuttosto a che la politica lo lasciasse lavorare in pace: opinione ricorrente. Cefis aveva legami politici, il più stretto con Fanfani, di cui caldeggiò – molto concretamente – la corsa alla presidenza della Repubblica nel 1971, mancata. Ci fu allora un’alleanza fra il Psi di Francesco De Martino e Giacomo Mancini e Lotta Continua, autrice di una campagna contro il “Fanfascismo”; vedevamo in Fanfani temperamento e aspirazioni autoritarie, i franchi tiratori Dc non mancarono, De Martino, candidato unitario delle sinistre, raccoglieva più voti e per batterlo si elesse Giovanni Leone, al ventitreesimo scrutinio. 

 

L’“ossessione” di Pasolini impegnato nella scrittura di “Petrolio” (anche il titolo era ancora dubbio) ebbe un singolare tramite nello psicoanalista e militante Elvio Fachinelli, e la rivista sua e di Lea Melandri, “L’erba voglio”. Nel febbraio 1972 Cefis pronunciò uno dei suoi rari discorsi pubblici all’Accademia modenese. “L’erba voglio” lo pubblicò, ampiamente postillato, dandogli un titolo fortemente allarmato: “La mia Patria si chiama Multinazionale” (nella pubblicazione precedente, sulla rivista economica Successo, i redattori avevano intitolato “L’impresa ecumenica”. Il titolo autentico, di Cefis o più probabilmente dei suoi ghost writer, era: “Le imprese multinazionali: prospettive di un’economia senza confini”, e così disarmato sarebbe uscito, un anno dopo, sul Manifesto). Nella ricostruzione dell’episodio Morando segna un ottimo punto: raccomando di leggerlo attentamente. Alla nostra distanza, le previsioni di Cefis erano semplicemente fondate: l’erosione dei poteri degli stati nazionali a vantaggio delle compagnie multinazionali. E l’oratore formulava una previsione, non la auspicava. Nel clima di allora, bombe esplodevano e spade tintinnavano davvero, lo si lesse come una dichiarazione di guerra, la sfida di un internazionalismo proprietario cui rispondere con un riflesso nazionale. D’altra parte era contro quell’orizzonte, mutato in feticcio, “Lo SIM”, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, che le Brigate Rosse alzavano i loro tiri. Come che sia, Fachinelli inviò a Pasolini il testo di Cefis e lo invitò a scriverne. L’invito si ripeté in occasioni analoghe, e i due si incontrarono anche in una Festa dell’Unità, ma Pasolini non rispose mai, e alla fine il mitissimo Fachinelli gli chiese seccamente di rimandargli almeno indietro i testi. Che Pasolini però avrebbe incluso con risalto nella sua compilazione, in cui Cefis era trasparentemente presente sotto il nome di Troya. In quella Festa, nel 1974, Pasolini disse che nel discorso di Cefis agli allievi di Modena c’era “una nozione di sviluppo come potere multinazionale… fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa”. Si ha ora una curiosa sensazione: che Pasolini ricavasse dalla lettura di Cefis la precipitazione del giudizio sulla mutazione antropologica degli italiani, e che a sua volta Cefis attingesse al Pasolini del Corriere, come in un successivo discorso: “Oggi dobbiamo rilevare con amarezza che il qualunquismo non solo sopravvive ma viene sfruttato da forze notevoli che puntano ancora, come dimostrano le bombe, al ritorno della Guerra Fredda. Quelli delle bombe non mirano tanto a far tornare il fascismo, che è cosa davvero impossibile… A mio parere il malessere che si avverte è la naturale e logica conseguenza della fase di rapido e diffuso cambiamento che hanno conosciuto i costumi e la vita del nostro popolo”. Pasolini comunque aveva scelto il suo avversario. 1° febbraio 1975: “Io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”.   

 

L’ossessione di Cefis, la più forte se non l’unica, e la miglior spiegazione della sua dimissione pubblica, era di scampare alle vendette politiche e alle rese dei conti e alle imboscate giudiziarie. “Un salvacondotto tombale che alla fine sembra aver ottenuto, visto che uscirà sempre pulito dalle numerose grane giudiziarie intentategli per le vicende più disparate”: compresi i processi per i disastri e i veleni e le morti sul lavoro, da Stava a Scarlino, da Bormida al Petrolchimico di Marghera. E l’ennesima accusa, di aver inventato la corruzione politica, di aver precorso Tangentopoli: “Nessuno poteva stare in posti come il suo se non accettava di finanziare i partiti, diceva Cefis” – così ricorda uno stretto collaboratore. Craxi avrebbe invertito la sintassi: “Se non accettava di farsi finanziare”. 

 

A un altro passo vorrei accennare, quello sulla cospirazione del “5x5”, la Fondazione Agnelli, le tentazioni di Umberto, il gruppo di cattolici già comunisti come Felice Balbo e Baldo Scassellati. E’ un’altra storia in cui ebbero parte il quotidiano di Lotta Continua e il Bollettino di Controinformazione Democratica, animato da Piero Scaramucci, oltre che il Panorama di Lamberto  Sechi. Penso che cattive intenzioni e velleità manesche ci furono e che furono sopravvalutate. Qualcuno, nel mondo della finanza, sostenne che Cefis avesse lasciato potere e Italia nel 1977 perché stavano per arrestare sia lui che Fanfani, e un bel po’ di generali, per una congiura sventata da Gianni Agnelli, il nemico di Cefis. Era un’eco ridicola della storia del “5x5”, postdatata di sei anni e senza appiglio nei fatti.

 

Sono molti i capitoli di questa biografia che non cito, e molti i colpi di scena: per lo più colpi di scena che attutiscono, senza silenziarlo, il clamore. Tranne in un caso, il capitolo-appendice intitolato “Molto più di un epilogo”. Qui Morando prende bruscamente un’altra direzione, quella della morte di Mattei, come se si fosse convinto di aver ammucchiato abbastanza legna per far fuoco, comprese le 2.200 preziose pagine della sentenza stesa nel 2012 dal giudice Angelo Pellino per il sequestro e l’uccisione di Mauro De Mauro (che del resto aveva mandato assolto Totò Riina). Elencate le ipotesi, Morando ne sceglie nettamente una e la motiva: non solo che fu un attentato, ma chi lo commise. E siccome sa che almeno nei buoni libri bisogna concedersi il beneficio del dubbio, chiude così: “Bisognerebbe farci un film”.