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La mappa della bellezza moderna a Roma disegnata dal duo De Guttry-“Mapi”

Giampiero Mughini

Il copioso accumulo di libri e riviste che raccontavano case, arredi, vasi made in Italy, l'Archivio delle arti applicate, passa definitivamente nelle mani della Galleria d’arte moderna di Roma. Ci ha reso familiare l'originalità del design italiano

Quel covo romano che ha avuto così tanta parte nel renderci familiare la bellezza e l’originalità del design italiano del Novecento, L’Archivio delle arti applicate creato fin dal 1987 dal fatale duo Irene De Guttry/Maria Paola Maino (per gli amici “Mapi”), è arrivato definitivamente al capolinea. Quel loro copioso accumulo di libri e riviste che raccontavano case, arredi, vasi in ceramica made in Italy negli anni che vanno da Galileo Chini a Carlo Bugatti e via via fino ad anni più recenti, passa definitivamente nelle mani della Galleria d’arte moderna di Roma. E’ stato per oltre trent’anni un laboratorio e una fucina di idee, conoscenze, immagini dalla sconvolgente bellezza. Tra mostre, incontri con autori o personaggi, libri la cui documentazione era preziosissima, il fuoco di artiglieria intellettuale della combutta De Guttry/Maino è stato per lunghi anni ininterrotto. Memorabile la serie di volumi illustratissimi pubblicati nel tempo da Laterza e dedicati al “mobile italiano” delle varie epoche del Novecento. Quando uscì quello dedicato agli anni Cinquanta, chiesi a Mapi su quale di quei designer dovessi puntare il mio occhio. Mi disse, e le sono ancora grato, di andare senz’altro a far visita a Como al prodigioso architetto Ico Parisi, un autore che oggi ha un risalto culturale e collezionistico non inferiore a quello di Carlo Mollino. Trent’anni fa uno dei tre suoi mobili presentati in unico esemplare alla Triennale di Milano del 1951, lo pagavi tra dieci e venti milioni di lire. Oggi a un’asta internazionale raggiungerebbe facilmente un’aggiudicazione tra i 150 e i 200 mila euro.

Così pure di Duilio Cambellotti, un poliedrico artista che era stato ineguagliabile nella prima metà del secolo, l’Italia degli anni Sessanta si era completamente dimenticata. Un suo magistrale affresco a tempera affisso sulle mura del Palazzo del governo di Ragusa, e che raccontava la Marcia su Roma, era stato addirittura nascosto a forza di teli che ne oscurassero il carattere politically incorrect. Finché nel 1987 la Bompiani non pubblicò Invenzione di una prefettura, il libro con cui Leonardo Sciascia svelava al mondo quel capolavoro. La riscoperta di Cambellotti fu uno dei cavalli di battaglia delle due nostre eroine, cui si deve (firmato assieme a Gloria Raimondi) il Duilio Cambellotti. Arredi e decorazioni pubblicato da Laterza nel 1999. Non ricordo se fossero state loro due o non invece l’indimenticabile  studioso di Cambellotti, Mario Quesada (nato nel 1941, morto nel 1996), a invitarmi a far visita allo studio romano dove Cambellotti aveva lavorato a lungo, e dove fu il figlio di Cambellotti a ospitarci. Di certo Quesada c’era e mi informava mentre  percorrevo le stanze da dove trasudava il genio con cui Cambellotti aveva dato forma alle sue opere, fossero di volta in volta ceramiche mobili tempere.

Per me, arrivato men che trentenne nella Roma degli anni Settanta e che mai una volta avevo sentito pronunciare all’università il termine “design”, la frequentazione dei negozi di modernariato condotti rispettivamente dalle due primedonne del gusto moderno – “Le Troc” di Irene non lontano da Piazza del Popolo e “L’emporio floreale” di Mapi attiguo a Piazza di Spagna – valse più che non la frequentazione di un corso universitario. Innanzi alle due vetrine dell’“Emporio Floreale” da cui rilucevano i vasi in vetro di Émile Gallé o quelli in ceramica di Cambellotti  – era il tempo in cui si era fatta irradiante la malia del liberty europeo – mi ci fermavo ipnotizzato e persino impaurito. Sprovvisto com’ero di un soldo che fosse uno, non avevo neppure il coraggio di entrare e chiedere eventualmente i prezzi.

Nell’occasione di un’indimenticabile mostra all’“Emporio Floreale”  scoprii le valenze inaudite del faggio evaporato ricurvo, quel legno che il falegname ed ebanista tedesco Michael Thonet aveva saputo ondulare a piacimento fin dalla metà dell’Ottocento a farlo diventare la data di nascita del design moderno (oggi quei mobili portano il marchio di Gebrüder Thonet). Quando cominciai a frequentare Mapi, lei mi accoglieva di solito nel suo ufficio al piano superiore del negozio. In quella stanzetta troneggiava uno scrittoio in legno thonet disegnato dall’immenso Joseph Hoffmann, l’architetto austriaco nato nel 1870 e morto nel 1956 che fa da capintesta del modernismo. Forse l’oggetto di design più bello che io abbia mai visto in vita mia. Costava 800 mila lire della metà dei Settanta, laddove a quel tempo col battere alla macchina da scrivere io guadagnavo a stento 200 mila lire al mese. Poco meno di mezzo secolo dopo ne ho ancora le vertigini di quel pezzo/capolavoro, che Mapi vendette poi a un architetto e collezionista palermitano. In compenso, quindici o vent’anni dopo riuscii a comprare un altro dei capolavori di Hoffmann, un esemplare della Sitzmaschine, la sedia simbolo del design novecentesco. Da quanto incute rispetto al solo guardarla, è raro che nella stanza/museo di casa mia in cui si trova qualcuno dei miei amici vi si segga.

E comunque più di trent’anni fa era stata ancora Mapi a indicarmi un altro indirizzo/chiave della bellezza moderna esibita a Roma in fatto di arti applicate, il negozio di modernariato novecentesco – ceramiche e vetri italiani – di Enrico Camponi a via della Stelletta, un negozio che ha purtroppo chiuso i battenti nel 2013 e le cui tracce palpabili permangono a casa sua, ammantata com’è di bellezza novecentesca in ogni suo angolo e stipo. Dato che lui è un cuoco sopraffino, Mapi e io siamo sovente suoi ospiti a cena. I due antiquari romani Roberto Giustini e Stefano Stagetti hanno recentemente messo in mostra, nella loro prelibata galleria romana di via Gregoriana, una stupefacente sequenza di ceramiche in grès anni Cinquanta di Guido Gambone che facevano parte della collezione Camponi. Da brividi.

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