Ettore Sottsass (LaPresse) 

uffa!

Sottsass e Kuramata: l'oggetto di design come poesia, più che telegramma

Giampiero Mughini

L'Adelphi pubblica un testo finora inedito del designer italiano, uno scritto fatto tutto a mano, a lettere maiuscole. Una apologia del design per come l'avevano concepito lui e il collega giapponese, di cui era stato amico e sodale affettuoso

Non credo di sbagliare se dico che Roberto Calasso, il più grande editore italiano moderno, non teneva in gran conto la storia del design in ciò che ha di precipuo, la progettazione degli oggetti e degli ambienti in cui e con cui si consuma la nostra vita di ogni giorno. La volta che gliene accennai, all’ipotesi di scrivere un libro che raccontasse la storia del design italiano, lessi sul suo volto il disinteresse. Com’è allora che l’Adelphi di questi ultimi anni, già prima della morte di Calasso l’anno scorso, non si risparmi nel pubblicare libri che portano la firma di Ettore Sottsass, l’ineguagliabile maestro del design contemporaneo non soltanto italiano? La casa editrice milanese aveva cominciato, quasi in sordina, col pubblicare nel 2009 Foto dal finestrino, un librino che testimoniava un talento (fotografo) a latere del padre del gruppo “Memphis”, per poi pubblicare nel 2010 (tre anni dopo la morte di un Sottsass novantenne) un abbozzo di autobiografia di “Ettorino”, lo splendido Scritto di notte. Ebbene dal 2017 al 2021, tutti curati da Matteo Codignola, sono venuti fuori tre libri targati Adelphi piccoli di formato ma che ce l’hanno scritto in fronte quanto sono orgogliosi di se stessi, a cominciare dai loro bellissimi titoli, Per qualcuno può essere lo spazio, Molto difficile da dire, Di chi sono le case vuote?

Sono tutte e tre delle raccolte di scritti talvolta estemporanei (in occasione di una mostra o della pubblicazione di un catalogo) o talvolta inediti. Sottsass è stato molte cose, un designer, un architetto, un fotografo, un editore raffinatissimo, un organizzatore culturale. Ed è stato, c’è questa terna di libri uno più bello dell’altro ad attestarlo, uno scrittore nel suo genere unico. Uno scrittore, esattamente questo è l’uomo che la Adelphi sta onorando. Ed era ora che qualcuno lo facesse. Era talmente tanta la discrezione di Sottsass, l’eleganza con cui faceva costantemente un passo indietro piuttosto che uno in avanti, la grazia con cui andava disseminando nel mondo le tracce del suo genio creativo, l’understatement con cui per quasi settant’anni aveva messo in tavola ogni particella del suo inesausto fare, che noi tutti lo davamo talmente per scontato che quanto all’arte specifica dello scrivere “Ettorino” avesse pochi rivali. Non dico fra i designer, ma anche fra quelli che usano lo scrivere come il loro strumento di espressione usuale. No, non è davvero così scontato che uno tiri fuori delle pagine letterariamente oltre che intellettualmente da capogiro come quelle contenute nella terna adelphiana di cui sto dicendo. 

Gli bastava niente per accendersi, o meglio Sottsass era ubiquo quanto allo scovare a 360 gradi le esche di cui accendersi. Prendiamo il testo del 1978 che dà il titolo con tanto di punto interrogativo a uno dei tre libri, “Di chi sono le case vuote?”. Sottsass comincia col dire che i più, a sentire l’espressione “case vuote”, pensano si tratti delle case dei poveri, di quelli che non hanno un gran che da metterci dentro. Sbagliatissimo. Le case dei poveri sono piene zeppe di robaccia, sono “affollate e ansiose”. Più facile pensare come “case vuote” alle case di “gente tanto privilegiata, da poter decidere quando, quanto e come sottrarsi al generale festival della competizione”. Pochissimi dunque. Meno che mai sono vuote le case degli artisti, dei poeti, degli architetti, i quali tutti devono farsi valere e giudicare e premiare e dunque devono apprestare per ogni dove lance, scudi, trofei, furbizie e gomitate e altarini e memorie con cui impressionare chi commissiona il loro lavoro. Altro che case vuote le loro, piuttosto “reticolati da combattimento”. Da capogiro.

Com’è da capogiro il testo, forse il più bello del libro di cui sto dicendo, oltretutto un testo finora inedito. E’ uno scritto del 1991 che Sottsass aveva fatto tutto a mano, tutto a lettere maiuscole, e che l’Adelphi pubblica tale e quale come in una sorta di fotocopia. E’ un dialogo ideale con Shiro Kuramata, un designer giapponese di cui Sottsass era stato amico e sodale affettuoso. “Ettorino” deve averlo scritto di getto alla notizia della morte, il 1° febbraio 1991, di un Kuramata appena cinquantasettenne. Questa drammatica sollecitazione emotiva diventa per Sottsass l’occasione per costruire, in poche fulminanti battute, una apologia del design per come lo avevano creato tutta la loro vita sia lui sia Kuramata, ossia che gli oggetti di design fossero ideati in modo da somigliare meno a un telegramma e più a una poesia (l’anno scorso una galleria di Hong Kong ha dedicato una mostra congiunta ai due maestri). I due si erano difatti costeggiati al tempo di Memphis, e anche se in Italia il più del suo lavoro Kuramata lo ha firmato per la Cappellini, la raffinata azienda di Carugo (provincia di Como). “Lui non parlava inglese, e io non parlavo giapponese, eravamo come due amanti, comunicavamo con gli occhi, con i sorrisi, con le mani ma soprattutto con i silenzi”, esordisce Sottsass. Per poi delineare e contrapporre le due diverse teorie del design. Da un canto quella di chi voleva che “il design aveva il compito di controllare la ‘figura’ dei prodotti tenendo conto delle esigenze dell’industria e di quella che si chiama con enfasi, la funzione del prodotto”. Dall’altra quella di un designer quale Kuramata e, sottinteso, di Sottsass: “Il design è quella ricerca intellettuale con la quale si propongono alla gente figure possibili aggiornate alla dinamica della storia, dell’ambiente intero. Su questo palcoscenico gli oggetti, i prodotti, i mobili non hanno da essere strumenti per la sopravvivenza del business industriale, ma hanno da essere strumenti per la sopravvivenza e il rifiorire della gente, strumenti per provocare una permanente consapevolezza esistenziale”. La differenza che c’è tra un telegramma e una poesia. Da capogiro.