1941-2021

Con la sua Adelphi Roberto Calasso ha reso il libro un feticcio

Michele Masneri

Cosa vuol dire pubblicare per la casa editrice milanese. Le mitomanie. Il rapporto con Agnelli. E quell'ufficio misterioso in cui lavorava lui: nei pressi della sua porta si camminava in punta di piedi 

Per la serie “io non lo conoscevo bene”, io Roberto Calasso non l’ho mai visto. Le procedure emozionate per la pubblicazione del mio libro Adelphi (ebbene sì, sono un autore Adelphi, ci terrei a sottolinearlo) si svolsero soprattutto con il cugino e editor principe della casa editrice, Matteo Codignola. “ll Supremo”, come lo sentii nominare da alcuni nella scena editoriale milanese, dava il suo assenso da lontano. Le poche volte che entrai nei mitologici uffici milanesi  di via San Giovanni sul Muro non sembrava di stare all’Adelphi, almeno l’idea che mi ero fatto dell’Adelphi (arredi Frank Lloyd Wright? Arte e lampade Gae Aulenti? Macché, tutto era sgarruppato e teso a un understatement estremo, come dire: noi siamo l’Adelphi, mica dobbiamo curarci dell’arredo come voi che siete abbonati a Domus e poi comprate Mondo Convenienza). Dunque anche boccioni d’acqua accatastati all’ingresso.

 

Poi però notavi che si attutivano i passi nei pressi di una certa porta. Si camminava in punta di piedi. Quella è la sublime porta, ti dicevano. “Oggi c’è?”. “Non so, non l’ho visto”, sussurravano, e si narravano meraviglie, di quell’ufficio, come se non fosse l’ufficio di Calasso, ma un tunnel spaziotemporale, tipo passaggio del Bianconiglio; però non l’immaginavi bianco, semmai in tutte le sfumature di quelle cover che nobilitavano le nostre biblioteche.

 

Calasso (genio culturale completo, dunque anche di marketing e design) aveva capito anzitempo che, per diventare editore ed autore di culto, nel paese occidentale che più sospetta di libri e di scrittori, doveva trasformare i suoi prodotti in “limited edition”, feticizzare l’oggetto; dunque ecco le nuance ed ecco le carte martellate e il font prezioso. Poi, sotto quella livrea in grado di attizzare eruditi esigenti e sciure ansiose di arredare villette e saloni, pubblicava magari il romanzo più importante del decennio (si possiede una prima edizione di “Seminario sulla gioventù”, 1984), i mistici più incomprensibili, Thomas Bernhard, e insieme best seller intergenerazionali come Chatwin, o la mirabile “Versione di Barney”, tradotta e scoperta da Codignola, celebrata qui sul Foglio. E ancora Simenon o, in copertine di sublime concezione, la saga popolare di 007. Oppure ancora i libri di Marella Agnelli, curati dalla nipote omonima poi romanziera Adelphi in proprio. Del resto, c’era poi tutto un côté Agnelli, in Calasso. L’amicizia con la first dama d’Italia, i libri, ma anche il whatever it takes che l’Avvocato garantiva per quella casa editrice esclusiva come l’Eagle club di Gstaad (da poco tornata indipendente. E adesso che succederà?).

 

Il culto era esoterico e prendeva un po’ la mano. Anche a insospettabili: come quegli autori non Adelphi che si trovavano a passare per caso, perfettamente abbigliati da tennis, sotto gli uffici di via san Giovanni sul Muro, sapendo della passione per i gesti bianchi di Codignola. Il cui ultimo spassoso romanzo (di Codignola) peraltro compariva in migliaia di stories e recensioni e tweet nei giorni scorsi anche di giornalisti e scrittori bastian contrarissimi, che però  di fronte al manufatto Adelphi si ammansivano improvvisamente, e, riponendo i risentimenti, aprivano il cuore al superlativo assoluto, con la fiducia sognante degli agricoltori biodinamici nel corno seppellito: faccio la foto al libro Adelphi, dunque farò un libro Adelphi…

 


Egli, il supremo, lo sapeva, all’Adelphi lo sapevano, e la tecnica Calasso era del resto “shock and awe”; anche chi riusciva a pubblicare con loro non era garantito a vita. Fare l’autore Adelphi non era insomma un lavoro a tempo indeterminato. Qualcuno sosteneva che ti facessero comunque saltare un turno, tra un libro e l’altro, per farti restare umile. Così, quando salivi a San Giovanni Sul muro, era una scala santa, e insieme una walk of shame; la prima volta mi fermai a bere degli estratti per tirarmi su, in uno di quei bar di zuppe e insalate milanesi, del tipo “componi la tua insalata”, all’inizio della via, verso il teatro Dal Verme. E non riuscivo a comporla e a ricompormi nel momento in cui stavo per varcare la Sublime Porta. Dunque, mal di pancia e gabinetto. Per fortuna la porta non si aprì. 

 

Nel mio caso, arrivarci, all’Adelphi, fu casuale: quando sentii al telefono Codignola, che conoscevo per giri editoriali milanesi, e mi disse di mandargli quella “cosa”, cioè i miei reportage californiani, la presi come una patetica cortesia, “mandamelo, sì”, quelle frasi che si dicono, e non mi posi proprio il problema che quella “cosa” sarebbe mai potuta essere pubblicata da loro. Figuriamoci. Ripresi a nuotare: ero a fare il bagno in una piscina a Roma, dietro “quella orrenda chiesa Novecento di Sant’Eugenio”, cit. di un Adelphi massimamente importante per me, l’arbasiniano “Fratelli d’Italia”, dove in quella chiesa si dà un funerale leggendario. Ed ero di nuovo lì quando mi giunse la conferma che gli era piaciuto (vabbè); e poi che anche il Supremo aveva approvato (non è che io viva in piscina. Erano tre sabati d’estate). Pensai a uno scherzo, o a un triplo miracolo, come Manzoni a San Rocco, nel famoso sbrocco dove egli “retrouva la foi de son baptême”! E da allora considero quel posto sacro (la piscina, non la chiesa) e  vi compio riti idrici-scaramantici.  

 

L’emozione d’essere ammesso al culto, del resto, oscurava la realtà che avrei sperimentato - la cura estrema dei testi, la scelta fotografica ambiziosa, la professionalità d’altri tempi della redazione; tutto veniva in secondo piano. Vinceva il Mistero: e L’Ammissione generava sentimenti contrastanti: mitomania (ero l’unico bresciano vivente nel catalogo Adelphi insieme a Busi!, mi trovai a pensare, psicopatico, alla dipartita del povero Emanuele Severino).  Poi, un’angosciosa sindrome dell’impostore: cominciai a guardare sospettosamente a quell’editore; se accettavano uno come me, forse non erano davvero così chic. Non era certamente più l’Adelphi di un tempo.

 

Infine, la questione del titolo, che svelo qui non per mancanza di rispetto per il de cuius, ma perché mi sembra significativa: quello che avevo proposto per il mio reportage era “Siamo Dei”, citazione luciodalliana, ma non convinse, perché, mi arrivò la voce, chissà se vera o se leggenda, che tutto ciò che riguardava il divino era prerogativa di Calasso. Così divenne “Steve Jobs non abita più qui”. Il Supremo, comunque, non lo vidi mai. Ricevetti bigliettini cordiali con clip dorate (finalmente qualcosa in linea con ciò che noi tapini ci si aspettava dall’Adelphi, una doratura!), e risposi deferente; ci saremmo incontrati di certo presto. Ma non ci fu tempo: vennero le pestilenze. Mai svelato insomma il mistero del tunnel di San Giovanni sul Muro: da cui il Supremo si sarà involato adesso verso qualche monte analogo. Su un piccolo aereo di carta, certamente color malva, o verde pistacchio. Bianco, di certo, no.
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).