Ritratto di Carlo Mollino (Ansa) 

uffa!

Il design italiano in fuga all'estero, ma gli arredi di Carlo Mollino resistono

Giampiero Mughini

Sono decenni che il patrimonio artistico prodotto dai primi Cinquanta agli ultimi Ottanta va via dall’Italia a gran velocità, ma lo stato è riuscito a pagare i capolavori di Casa Albonico per tenerli al Museo di Design della Triennale

Eccome se invidio il nostro Michele Masneri che le esche offerte dal recente Salone del Mobile milanese le ha assaporate in lungo e in largo, e ne ha scritto da par suo su questo giornale. E meno male che Milano ha un sindaco quale Beppe Sala, uno che ci aveva creduto fortemente nella riuscita di pubblico del Salone, la manifestazione forse la più lampante nel celebrare la moderna creatività italiana. Non fosse per il lavoro che devo fare per campare, c’era una ragione strabastante perché venissi a Milano e più precisamente al Palazzo dell’Arte che ospita la Triennale: godere da vicino del gruzzolo di arredi che Carlo Mollino aveva apprestato nel 1944 per la sala da pranzo di Casa Albonico, una famiglia torinese che negli anni Trenta era stata cliente di suo padre, l’architetto Eugenio Mollino. C’erano un tavolo, sei sedute, alcune seggiole di servizio, due credenze diverse ma affini, un divano, due poltrone, un armadio/scrittoio, un piano. È un miracolo siano ancora in Italia a disposizione di noi ossessi dell’opera di Mollino, architetto designer fotografo autore di libri d’artista.

Vengo e spiego. Sono ormai decenni che il gran patrimonio artistico italiano prodotto dai primissimi Cinquanta agli ultimi Ottanta va via dall’Italia a gran velocità, comperato com’è da collezionisti e musei stranieri. Non è un caso che il tavolo di Mollino che ha conquistato il prezzo record (oltre sei milioni di dollari) quanto a un oggetto di design del Novecento sia stato acquistato da un collezionista americano dopo essere appartenuto a lungo a un museo di Brooklyn. Tanto l’Italia in quel tentennio ha partorito il ben di dio in fatto di design, poesia visiva, arte povera, fotografia, fumetti, vinili originali di quel comparto della musica moderna che passa sotto il nome di progressive rock, riviste eccezionalmente innovative in materia di arte e architettura, tanto i musei americani si accaparrano una notevole parte di quei materiali originali.

Trenta e passa anni fa stavo spasimando dal desiderio di acquistare tre “libri illeggibili” di Bruno Munari degli anni Quaranta in copia unica, solo che un museo americano offrì al libraio che li possedeva quattro volte la cifra che avevo offerto io. Biblioteche e collezioni private italiane sono periodicamente saccheggiate  dagli esponenti della Yale University che pagano fior di quattrini sonanti. Quelli che erano venuti a Roma da Tano D’Amico, un fotografo italiano che non ha l’eguale nell’aver raccontato gli anni Settanta, e gli avevano proposto l’acquisto dell’intero suo archivio, fortuna che Tano abbia eroicamente resistito. L’archivio di Gianni Emilio Simonetti, un polivalente artista milanese anche lui ineguagliabile nell’aver fatto a cazzotti con gli anni Settanta, ha preso anch’esso la via della Yale University. Già alcuni anni fa un gallerista tedesco mi ha mandato una lettera in perfetto italiano in cui mi proponeva l’acquisto dei tre mobili/pezzi unici che Ico Parisi (l’architetto/designer la cui grandezza è inferiore solo a quella di Mollino) aveva messo in mostra alla Triennale del 1951 e di cui sono particolarmente orgoglioso. Quando trenta e passa anni fa Fulvio Ferrari, il torinese che assieme a suo figlio Napoleone fa da pontefice della religione di Mollino, mise in mostra uno smagliante assieme delle (oggi) celebratissime polaroid erotiche di Mollino, per giorni e giorni nessuno entrò nella sua galleria a chiedere il che e il quanto. Finché non arrivò uno strano personaggio che si mise a sfogliare in silenzio gli album in cui erano contenute le foto e a un certo punto decise di acquistarle tutte. Era lo zurighese Bruno Bischofberger, il mercante storico di Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat.

Le cose non erano andate diversamente nel caso degli arredi di casa Albonico. In buona sostanza nell’estate 2020 erano stati bell’e venduti a un importante museo di design europeo. Solo che la meritoria Raffaella Bentivoglio-Ravasio (storica d’arte della Sopraintendenza alle Belle Arti) si era accorta che quegli arredi (creati nel 1944) avevano addosso più di settant’anni e dunque che l’eventuale procedura di esportazione doveva sottostare a vincoli più stretti. A farla breve, mentre gli eredi Albonico accettavano di rimetterci un bel po’ di soldi, lo stato italiano ha trovato di che pagare quei capolavori lasciandoli in comodato al Museo di Design della Triennale. Beninteso resta il problema di fondo, di cui scrive Gabriele Neri nel delizioso volumetto (“Carlo Mollino, Allusioni iperformali”) pubblicato da Electa ad accompagnamento della mostra alla Triennale: “Come si può tutelare il design italiano, favorendo il suo ingresso nelle collezioni pubbliche nazionali, a fronte di un mercato con prezzi sempre più irraggiungibili?”.

Aumentano così le stazioni obbligate della via crucis di noi adepti della religione molliniana. Il Museo della Triennale a parte (non so quanti siano nella sua collezione permanente i pezzi di rilievo di Mollino), dovete a tutti i costi accordarvi con i due Ferrari padre e figlio affinché vi facciano da ciceroni nell’affrontare le malie della casa torinese che Mollino apprestò fino all’ultimo dettaglio senza praticamente vivervi mai – dettagli che i Ferrari sono riusciti a recuperare tutti a fare di quella casa un sogno che non cessa –, tutt’al più usandola come scenografia per le polaroid che scattava a fanciulle disinibite che andava scegliendo lungo le notti torinesi. Imperdibile una visita alla discoteca torinese che si chiamava Lutrario e oggi ha nome Le Roi, le cui piastrelle in ceramica di Vietri Mollino era andato a sceglierle sull’aereo che guidava personalmente. Peccato non ci siano più le poltroncine e gli sgabelli in pelle rossa disegnati da Mollino, né i tavolinetti su ognuno dei quali era un telefono in modo che chi volesse fare un’avance poteva farlo direttamente. Più molliniano di così.