Calamita gravitazionale, Gino De Dominicis (foto Wikimedia Commons)

uffa!

Altro che Sessantotto, quanto a creatività gli anni Settanta non sono secondi a nessuno

Giampiero Mughini

Riflessioni sull'artista Gino De Dominicis e l'opera "non consumabile"

Quando una storica e critica d’arte quale Laura Cherubini scrive di Gino De Dominicis (nel suo recente “Controcorrente. I gran solitari dell’arte italiana, Milano, Christian Marinotti edizioni, 2020), è come se ti trasmettesse con tutta la sua persona il genio intero di una delle figure più enigmatiche della recente pittura italiana. Invidio infinitamente a Laura questa sua quotidiana frequentazione – talmente speciale e intensa – di un artista che faceva di tutto per sottrarsi, per nascondersi, per non apparire, al contrario dei tanti odierni cialtroncelli. Per lui tutto confluiva nell’opera e solo in quella, e ancor meglio se l’opera suscitava interrogativi e mai risposte, se l’opera fosse non “consumabile”, se rimanesse come una drammatica distanza tra lei e chi ne stava usufruendo. Si trattasse della foto che ha per titolo “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua”, o della celeberrima “Mozzarella in carrozza” che davvero mette in scena una mozzarella e relativa carrozza, o della conturbante “installazione” (termine osceno, ma non trovo un altro) della Biennale di Venezia del 1972 dov’era mostrato un ragazzo Down, ciò che valse a De Dominicis  una denuncia per “sottrazione di incapace alla patria potestà”.

 

Tanto De Dominicis si sottraeva ai giudizi i più facili e i più superficiali, da volere impedire la pubblicazione di materiali che lo riguardassero, a cominciare dai cataloghi delle sue mostre. Valga per tutti la storia del mitico catalogo evocativo della mostra di De Dominicis nella Galleria d’Arte contemporanea Emilio Mazzoli di Modena, il 30 maggio 1998, cinque mesi prima della sua morte. A tutta prima, e come sempre, De Dominicis non ne voleva sapere di acconsentire a un catalogo. Solo che Mazzoli (uno dei maggiori galleristi italiani) insistette perché il catalogo si facesse. Dopo aver frapposto mille ostacoli De Dominicis acconsentì a condizione che fosse lui a occuparsene dalla prima all’ultima riga di stampa. E difatti ne venne fuori né più né meno che un’opera di Dominicis. Ossia non tanto la riproduzione delle opere in mostra e bensì pagine bianchissime su ciascuna delle quali stava un ricamo di polaroid scattate nello studio romano del pittore da settembre 1997 a marzo 1998. Foto per lo più di ragazze belle e seducenti, ragazze che abitualmente affollavano lo studio dalle parti di piazza Navona e rispetto alle quali le opere destinate alla mostra restano sullo sfondo, come fossero lì per caso. Sulla copertina (bianchissima) stava una riga nera verticale dove il nome di De Dominicis era indicato all’incontrario e a lettere maiuscole, “SICINIMOD ED”. Suggestione allo stato puro di un oggetto cartaceo da pubblicare in 500 copie. Solo che quando lo vide De Dominicis non ne fu minimamente contento e volle che la gran parte delle copie venissero distrutte. Sono felice di averne una delle poche copie sopravvissute, regalatami da Mazzoli, mio amico oltre che rivale nel collezionare le carte del Novecento in prima edizione.

 

E a proposito di carte originali del Novecento – libri, cataloghi, poster, riviste, plaquette, inviti di mostre – gli anni che vanno dai Cinquanta inoltrati a tutti gli Ottanta sono stati fra i più ricchi nella storia dell’uomo. Tale era la sovranità della carta nel reame della comunicazione che tutti si affidavano alla carta, e talvolta ne esasperavano le valenze, pur di fare arrivare a un pubblico possibile le loro emozioni e le loro creazioni. Laura Cherubini scrive che se vuoi tastare e apprezzare al giusto le opere dei migliori pittori italiani del tempo di cui sto dicendo, devi andare alle mostre e guardarle lì dove se ne stanno in carne e ossa, e questo vale per Alighiero Boetti come per i coniugi Merz, per Fabio Mauri come per Vettor Pisani. Solo che quando lei ci racconta questi “solitari” di genio si appoggia pagina dopo pagina sui cataloghi delle loro mostre oppure sulle riviste dov’era covato il lavorio intellettuale da cui quelle opere erano partorite, riviste che duravano un battibaleno ma accesissime nello scovare le interconnessioni tra pittura e foto e letteratura e spirito del tempo. Non esiste un altro comparto della storia intellettuale dell’occidente dove la carta abbia svolto un tale lavoro di incubazione e di annuncio delle novità artistiche nel campo della pittura come in quello della letteratura come in quello della foto. Di più, quelle carte sono di per sé stesse opere e non soltanto documentazione, com’è del catalogo di De Dominicis da cui sono partito. E’ inaudito che in Italia non esista un museo specificamente dedicato ai Settanta e dintorni, a cominciare dal “Settantasette”, un anno cento volte più prodigo di creatività che non il “Sessantotto”, ammorbato com’era dall’ossessione citazionista dei Lenin e dei Mao. La poesia visiva, la foto, il fumetto di qualità, il progressive rock italiano, il design che s’erano inventati Alessandro Mendini e Ettore Sottsass, l’erotica scaricata a profusione su tutti gli anditi possibili, il gusto ereditato dai situazionisti degli happening quanto di più strafottenti, artisti multidisciplinari come il grandissimo Franco Vaccari o Mario Diacono o Gianni Bertini, tutto è in movimento nell’Italia di quegli anni. 

 

E siccome quel materiale è nato semiclandestino e diffuso in poche copie, custodirlo e salvarlo diventa un compito primario delle nostre istituzioni culturali. E’ quel che sta avvenendo? Nemmeno per idea. Le grandi biblioteche americane sono alla caccia spasmodica di quel materiale e ce lo stanno portando via a vagonate. Quando trent’anni fa ho cominciato a collezionare i libri su cui Bruno Munari – quello che in Francia chiamavano il Leonardo da Vinci del Novecento – aveva lasciato le sue orme, un museo americano pagò quattro volte la cifra che io avevo offerto a un libraio antiquario mantovano per tre “libri illeggibili” di Munari. La libreria Pontremoli di Milano ha recentemente messo in catalogo il primo e affascinantissimo libro illustrato da Ettore Sottsass nella Torino dell’immediato dopoguerra, un libro/cimelio. Lo ha comprato una biblioteca americana che ha un suo sito dedicato all’immane “Ettorino”. I materiali talvolta in copia unica prodotti nei Settanta da ED912, lo strepitoso laboratorio editoriale di Gianni-Emilio Simonetti e Gianni Sassi, hanno imboccato la strada della Yale University. La stessa che aveva offerto a Tano D’Amico, il più grande tra quelli che hanno raffigurato in fotografia il “Settantasette” e dintorni, di comprargli tutto intero il suo archivio e per fortuna che l’eroico Tano ha resistito. I vinili più importanti del progressive rock italiano, le meraviglie del Banco del Mutuo Soccorso o i dischi d’avvio di Franco Battiato o il fantasmagorico “vinile rosso” apprestato da Mario Schifano per un complesso musicale da lui messo in piedi sulla falsariga di quel che Andy Warhol aveva fatto con i Velvet Underground, li pagava a qualsiasi prezzo un collezionista russo morto purtroppo poco tempo fa. O forse no, forse quel museo in Italia esiste. A casa mia.