James Dean (foto Ansa)

uffa!

La morte ha salvato James Dean, icona del disagio giovanile di una generazione

Giampiero Mughini

Il secolo dei giovani raccontato nell'ultimo saggio di Goffredo Fofi
 

    Il mio vecchio compare Goffredo Fofi spadroneggia quando mette al centro della sua narrazione saggistica – una delle più colte e sollecitanti d’Italia – il cinema e i suoi eroi.  Di quelle opere sa tutto sino ai nomi degli interpreti minori di ciascun film visto e rivisto, ha nuotato in quelle acque tutta la sua vita, deve averci passato anni nei cinemini d’essai francesi e italiani tra i Sessanta e i Settanta. Figuratevi se potessero essere men che deliziose le 94 paginette di questo suo “Il secolo dei giovani e il mito di James Dean” che La Nave di Teseo ha appena mandato in libreria. Poco più âgé di me, Goffredo è un testimone impareggiabile di quegli anni. Da neodiplomato alle magistrali già nel 1955 aveva debuttato nella mischia delle idee nei paraggi di Danilo Dolci, dal quale aveva assorbito quella dolcezza che in lui conviveva con un furore ideologico che in anni trascorsi è stato talvolta assillante. Io gli ho voluto e gli voglio molto bene, come si addice a un fratello maggiore, e questo malgrado la nostra rottura ideologica a metà dei Settanta (lui condirettore dei “Quaderni piacentini”, io direttore di “Giovane critica”), quando Fofi continuava a credere a non so bene quale impresa dei proletari e a non so bene quale miglioramento dell’umanità da parte loro, e laddove io avevo preso a stare coi piedi per terra nell’individuare le cose possibili da fare in una società industriale complessa.

     

    E’ tanto che non lo vedo da quando andai in una sua umile casetta nel quartiere romano detto la Suburra, dove lui adesso non abita più. Gli ho mandato un paio di mail, questi ultimi dieci anni, in cui lo invitavo a casa mia a riannodare un rapporto che per me era stato sacro. Mi sarebbe piaciuto discorrere con lui a quattr’occhi di un bellissimo libro italiano pubblicato da Einaudi nel 2011 (Lodovico Terzi, “Due anni senza gloria. 1943-1945”) da lui prefato elogiativamente, seppure fosse il diario/romanzo di un italiano che al tempo della guerra civile non aveva trovato motivi ideologici per aderire da una parte o dall’altra al macello tra italiani e se n’era tenuto in disparte. Che Fofi lo avesse elogiato era il segno che lui stesso era immune dalle accensioni ideologiche totalizzanti che erano state le sue nei Settanta. A quelle mie mail Goffredo rispose quanto di più riottoso, temeva che a casa mia si sarebbe ritrovato con molte persone, magari non tutte di suo gradimento: non sapeva che a cena da me siamo al massimo cinque persone. Due volte l’anno sei. Caro, vecchio Goffredo.

     

    Sì, ha perfettamente ragione Fofi nel dire che la nostra generazione – i ventenni dei Sessanta – ha avuto un culo grande così e tanto più rispetto ai ventenni del 1914-1918 di cui ne morirono a centinaia di migliaia mentre si avventavano contro il fuoco delle mitragliatrici, o ai ventenni del 1940-1945 che ne patirono di cotte e di crude sulle spiagge di Dunkerque o della Normandia. Noi emergemmo al mondo occidentale dopo vent’anni di pace e a un tempo in cui il reddito delle famiglie cresceva e si moltiplicava anno dopo anno. I nostri campi di guerra erano tutt’al più la scuola, la famiglia, i conflitti tra le generazioni, mentre la cultura eruttava caterve di cose nuove e stimolanti in tutti i campi. Ci trovammo tra le mani come se fosse la cosa più naturale del mondo i volumi tascabili della Bur dov’era offerto a 60-120-180 lire il meglio della letteratura di tutti i tempi, ma anche i vinili in cui Elvis Presley e gli altri eroi del rock mettevano in musica i nostri spasmi. Per non parlare del cinema americano e dei suoi attori che era come se ci si rivolgessero a tu per tu nello scaldare le nostre immaginazioni e le nostre rabbie. Fofi scrive così: “L’impressione […] è che al disagio avvertito dai giovani di quegli anni abbiano contribuito non poco le immagini che il cinema proponeva, in particolare quella di James Dean. Di lui più che di Brando e di Clift, vuoi perché i due film interessanti di Dean dei tre da lui girati, ‘Gioventù bruciata’ e ‘La valle dell’Eden’, proponevano il personaggio di un adolescente in crisi con la sua famiglia (in particolare il padre) nel quale era possibile a tutti gli adolescenti identificarsi (anche a quelli che non avrebbero mai fatto parte di una banda di motociclisti in cuoio come il Brando del ‘Selvaggio’), vuoi perché Dean ha avuto in sorte di morire giovane, e di fissare la sua immagine per sempre in quei pochi film e in una manciata di foto. Dean, insomma, anticipò molte cose. Anche Elvis, che ‘esplose‘ col rock nell’anno in cui egli morì”. 

     

    A un tempo in cui il cinema e i suoi miti erano prepotenti nel modellare la sensibilità diffusa, gli adolescenti di tutto il mondo furono pervasi dal  modo in cui Montgomery Clift, Marlon Brando, James Dean si muovevano, vestivano, parlavano, bofonchiavano, azzardavano un contatto con le ragazze loro coetanee. Quel che loro avevano imparato a essere e a fare, ossia aderire intimamente al personaggio interpretato, al newiorchese Actor’s Studio di Elia Kazan. Chi di noi non voleva somigliare a uno dei tre, più di tutti gli altri a Dean e ai suoi tic? Per me tutto della sua apparizione fisica, della sua gesticolazione, delle nevrosi come scolpite sul suo volto, era una sorta di Corano dell’essere e dell’immaginare. Da dove avrei dovuto attingere altrimenti i miei valori e modelli di comportamento, dai verbi greci irregolari da imparare a memoria con cui mi avevano tormentato nel liceo catanese della mia adolescenza? 

     

    Il titolo originario di “Gioventù bruciata” era “Rebel wihout a cause”. Dopo quel film venne a Dean la proposta del regista George Stevens di interpretare “Il gigante” (“un film brutto e pomposo”, secondo Fofi). E siccome i dirigenti della casa produttrice conoscevano la febbre di Dean per l’andar veloce in auto, gli fecero firmare un impegno a non correre in auto durante la lavorazione del film. Dopo i quattro mesi che era durata la sua astinenza dal correre veloce, Dean comprò una Porsche 550 Spyder cui diede come nomignolo “Little Bastard” e con cui si iscrisse a una corsa americana. Il 30 settembre stava recandosi al luogo di gara quando alle 15,30 beccò una multa per eccesso di velocità. Poco dopo, sulla Route 466, una Ford Custom Tudor guidata da uno studente ventitreenne che viaggiava in direzione opposta, si immette sulla corsia di Dean. Il quale non rallenta, convinto che quella macchina si toglierà di torno. L’impatto è micidiale. Alle 17,59 Dean viene dichiarato morto. La vita aveva copiato il film in cui uno dei protagonisti muore correndo in auto. Ancora Fofi: “Dean avrebbe oggi quasi novant’anni e probabilmente una lunga carriera alle spalle. Forse la sua nevrosi l’avrebbe distrutto altrimenti, forse sarebbe divenuto un buon attore di carattere, in ruoli un po’ fissi, chissà. Possiamo prevedere quale sarebbe stata la decadenza di Marilyn – che era già iniziata – e conosciamo quella, a suo modo grandiosa, di Brando. Non riusciamo a immaginarne una adeguata per Dean, e ci vengono in mente solo idee non piacevoli. La morte lo ha salvato da tutto questo, tanto più in quanto l’ha colto nel suo primo e pieno trionfo”.