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uffa!

L'ambivalenza della cacciata dei francesi d'Algeria incarnata in un sol uomo

Giampiero Mughini

Un libro di Gabriel Matzneff per scoprire il colonnello Bastien-Thiry, attentatore di De Gaulle, "colpevole" di aver ceduto sull'Algeria. Un gesto che aiuta a capire il dramma del milione di francesi obbligato ad abbandonare il paese

Ho finalmente trovato il primo e ormai remoto libro di Gabriel Matzneff, Le Défi, pubblicato a Parigi da La Table Ronde nel 1965, quando lui aveva trentun anni. Di quel libro mi interessava molto il saggio dedicato a “Le suicide chez les Romains”, che era piaciuto all’altro scrittore francese appassionatissimo di storia romana, Henry de Montherlant, il quale aveva 69 anni all’uscita del libro e che sette anni dopo (il 21 settembre 1972), divenuto quasi cieco a causa di un ictus cerebrale, si sarebbe a sua volta suicidato.

Solo che ho cominciato a leggerlo non a partire dalle prime pagine e bensì dalla pagina 61 dov’è il saggio che Matzneff dedica – con grande acume – a un personaggio della storia francese da cui sono stato a lungo ossessionato. Il tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry, quello che il 22 agosto 1962 aveva fatto da vedetta dei 12 nazionalisti francesi armati di mitragliette che non volevano rinunciare al dominio della Francia sull’Algeria e che per questo avevano apprestato un agguato micidiale contro la Citroën su cui viaggiavano il presidente della Repubblica Charles de Gaulle e sua moglie Yvonne. E’ una bufera di proiettili, 187 di cui 14 colpiscono l’auto presidenziale senza però scalfire né De Gaulle né la moglie né l’autista, il quale è lesto nel sottrarre l’auto alla mira degli attentatori. La polizia francese li cattura uno dopo l’altro e finché, il 17 settembre, non mettono le mani su chi aveva organizzato il tutto e che non era un uomo da poco nella società francese del tempo, il trentacinquenne tenente colonnello Bastien-Thiry, padre di tre figlie, cavaliere della Legion d’onore, un ingegnere dell’aeronautica militare che aveva progettato il preziosissimo missile terra-superficie Nord-Aviation SS.10. E’ un uomo che ha delle convinzioni forti, ragionate, e che pur di attuarle è pronto a tutto. Quando lo arrestano, l’ispettore di polizia che lo sta interrogando gli chiede se gli attentatori sapevano che sull’auto viaggiava anche la moglie di De Gaulle. “Nello sposarlo, sapeva che ne avrebbe avuto tanto il meglio che il peggio” risponde l’ingegnere.

Chiedo perdono ai lettori più giovani del Foglio, ma la mia generazione è stata commossa dalla “guerra d’Algeria” e dai suoi risvolti politici e morali almeno quanto dalla guerra in Vietnam. Un’ossessione che seppe rappresentare benissimo Gillo Pontecorvo con il suo film del 1966, La battaglia di Algeri. Forte della lettura di un libro sacrale quale La tortura (pubblicato in Italia da Einaudi) in cui il giornalista comunista francese Henri Alleg raccontava le torture cui lo avevano sottoposto i paras francesi inviati in Algeria a schiantare i rivoltosi, ero a tutta prima convinto che il bene fosse interamente dalla parte degli algerini in lotta e il male tutto dalla parte di quel milione di francesi che in Algeria si sentivano a casa loro e che in un secolo avevano contribuito a farne quel che era. Smesse quelle lenti ideologiche, più tardi ho inteso meglio l’ambivalenza di quella immane tragedia. Ancora mi vergogno di avere detto “lei mi ha deluso” al migliore degli alunni francesi che frequentavano il liceo dove nel 1967-68 insegnavo italiano, un ragazzo la cui famiglia rientrava in quel milione di francesi che abbandonarono l’Algeria portandosi via quanto se ne stava in un paio di valige, e che ovviamente aveva dissentito dalle banalità anti-francesi che avevo pronunziato sulla questione. E a parte quel milione di francesi che dall’Algeria se ne fuggirono, tutti i musulmani algerini che avevano lavorato con loro furono orribilmente annientati a decine e decine di migliaia.

Ebbene il personaggio Bastien-Thiry quell’ambivalenza la incarna al meglio. In aula innanzi ai giudici del tribunale militare, tiene un discorso a fronte alta in cui rinfaccia a De Gaulle d’essere stato uno “spergiuro” nel tradire le aspettative dei francesi che vivevano in Algeria. Lui ammette che la soluzione finale poteva essere l’indipendenza degli algerini, solo che in questo caso era “un imperativo assoluto” per il potere gollista fare rispettare “la vita la libertà e i beni dei milioni dei francesi d’origine e dei francesi musulmani che vivevano su questa terra”. Bastien-Thiry rivendica il diritto di opporsi a un potere politico che ha mancato alla sua parola né più né meno di come avevano fatto Claus von Stauffenberg e gli altri ufficiali tedeschi insorti contro Hitler. E’ una perorazione la cui violenza antigollista non è inferiore a quella delle 187 pallottole. “Non aveva che da tacere” dirà uno dei giudici del tribunale militare che lo condanna a morte, e sarebbe stato l’ultimo condannato a morte nella storia della Francia moderna. Sono in tanti quelli che in Francia supplicano De Gaulle di concedergli la grazia. Al tempo in cui andavo e riandavo a Parigi continuamente, ne parlai con Roger Stéphane, uno scrittore che pure era stato negli anni Quaranta un gollista della prima ora e che aveva cercato a sua volta di convincere De Gaulle a concedere la grazia. “De Gaulle mi disse che aver sbagliato la mira non era un’attenuante”, mi confidò. La grazia venne data ai due nazionalisti che avevano sparato, non a Bastien-Thiry. Lo svegliarono alle cinque del mattino dell’11 marzo 1963. Chiese di poter assistere a una messa mentre lui se ne stava a pregare con in mano un rosario. Duemila poliziotti erano appostati lungo la strada che portava il camion su cui viaggiava il condannato al Fort d’Ivry, il luogo della messa a morte. I dodici uomini del plotone d’esecuzione aprirono il fuoco alle 6.42. Bastien-Thiry aveva rifiutato di farsi bendare.

Ps. Un mio amico mi confidò che nei Sessanta degli studenti di destra stavano distribuendo a Roma un volantino a difesa di Bastien-Thiry, che lui lo respinse e che ne stava per nascere una colluttazione.