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L'infamia nazista del 16 ottobre '43 e la posa, oggi, di cinque pietre d'inciampo

Giampiero Mughini

Sono sampietrini con sopra una lastra sottile di ottone, con inscritto il nome e cognome dell’ebreo o dell’ebrea rastrellati e la data del loro assassinio. Al 240 di viale Trastevere si racconta finalmente la tragedia che non ha risparmiato la famiglia Sabatello

Stamane attorno alle dieci, quando ciascuno di voi ha appena attinto la copia del Foglio che avete in mano, a cento metri da casa mia si starà svolgendo una cerimonia straziante. Ci passavo e ci passo ogni giorno innanzi al numero 240 di viale Trastevere, e l’ho già raccontato una volta ai lettori di questo quotidiano. E ogni giorno me ne vengono i brividi nel rammemorare quanto accadde la mattina presto del 16 ottobre 1943 in quella casa al cui secondo piano abitava una famiglia romana ebrea. I Sabatello, padre e madre e la bellezza di otto figli. C’erano venuti ad abitare alcuni anni prima forse perché era una casa più grande e più luminosa rispetto a quella del ghetto dove avevano vissuto prima. 

Ebbene stamane innanzi al cancelletto che marca il numero 240 di viale Trastevere (nel 1943 portava la denominazione viale del Re) verranno apposte cinque pietre di inciampo – quei sampietrini con sopra una lastra sottile di ottone lucido che s’era inventato nel 1993 l’artista berlinese Gunter Demnig – di cui ce ne sono già tante nel ghetto romano e nei quartieri adiacenti. Su ciascuna di quelle pietre, al modo di uno stenogramma che racconta una tragedia è inscritto il nome e cognome dell’ebreo o dell’ebrea rastrellati e la data del loro assassinio. Le pietre di inciampo installate oggi saranno cinque perché tanti – padre, madre e tre degli otto figli – furono rastrellati alla mattina del 16 ottobre. Papà Angelo Sabatello (nato nel 1893), sua moglie Costanza Citoni (nata nel 1897), il loro secondo figlio Carlo (nato nel 1920), il loro sesto figlio Umberto (nato nel 1927), il loro settimo figlio Franco (nato nel 1929). Gli altri cinque figli quella notte avevano dormito altrove e dunque si salvarono. Altre due pietre di inciampo verranno messe a pochi metri di distanza, innanzi al numero 246 di viale Trastevere, quelle con i nomi di due cuginetti dei Sabatello, Sergio e Umberto Mieli, rispettivamente di dieci e undici anni, figli di una sorella della signora Costanza. Il caso volle che la mattina del 16 ottobre i nazi non andassero a bussare al numero 246 di viale del Re. I due Mieli la sera precedente erano restati a dormire a casa dei loro cugini e in quella casa i nazi li afferrarono. Quella mattina la vita e la morte se ne stavano a pochi metri di distanza l’una dall’altra. E del resto i Delmonte, una famiglia ebrea che abitava a poche decine di metri dai Sabatello,  si salvarono tutti e tre e perché un loro parente li aveva avvisati che i nazi si erano messi in moto e perché quando scapparono su viale del Re incontrarono due italiani con l’impermeabile e il Borsalino in testa che dissero loro di fuggire nella direzione opposta, perché su viale del Re stava arrivando il camion nazi. Questione di pochi metri, questione di poche parole se pronunziate o no.

Ogni volta che passo innanzi al 240 di viale Trastevere è come se li avessi innanzi agli occhi. I sette ebrei che escono terrorizzati dal portoncino dove li stano circondando i guerrieri nazi orgogliosi di avere acciuffato donne e bambini che stavano dormendo, la signora Sabatello che mormora alla portiera di avvisare sua sorella (abitava a piazza Cairoli) ma di farlo più tardi per non svegliarla troppo presto. Dei poco più che mille ebrei rastrellati quella mattina del 16 ottobre ne tornarono a Roma diciassette. Nessuno dei sette Sabatello/Mieli catturati si salvò. Ho conosciuto due Sabatello di terza generazione dai quali ho raccolto i dettagli della loro tragedia familiare. Oggi avrò accanto Angelo Sabatello (nato nel 1947 dal terzo dei figli Sabatello), quello che mi ha regalato copia della foto con un saluto alla fidanzata che suo zio Carlo aveva lanciato via dal finestrino del treno che li stava portando ad Auschwitz.

Giacomo Debenedetti, il critico letterario ebreo che fa da primo aedo del moderno nella storia letteraria italiana (gli si deve la “scoperta” dell’allora sconosciutissimo Italo Svevo), nell’ottobre 1943 aveva 42 anni e viveva a Roma. Non sappiamo se i nazi lo avessero l’indirizzo della sua abitazione romana, e comunque la mattinata del 16 ottobre lui la passò nella casa di una sua vicina per poi rifugiarsi a Cortona, dove vivevano alcuni suoi amici. Appena rientrato a Roma, nell’autunno 1944, Debenedetti mise mano a quei due suoi librini, rispettivamente 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, la cui potenza è inversamente proporzionale al numero esiguo di pagine di cui sono fatti. “A Roma quasi non è casa, non è famiglia ebraica – scrive Debenedetti in Otto ebrei, pubblicato già nel 1944 – nella quale, tornando dopo questi mesi, non si abbia paura di chiedere notizie dei congiunti più stretti. Già troppe volte ci siamo visti opporre dei visi chiusi, severi, che si vietano qualunque espressione come superflua, come sproporzionata agli avvenimenti: ‘Presi, deportati quella mattina del 16 ottobre. Non se ne è saputo più niente’”. Il loro era “un tentativo di eufemismo pietoso, uno sfiduciato barlume di speranza”, scrive Debenedetti. La speranza, possibile ancora nell’autunno 1944, che prima o poi qualcuno di quei mille sciagurati tornasse vivo. Così come, ad avvio del memorabile 16 ottobre 1943 pubblicato nel 1946 con un disegno in copertina di Alberto Savinio, Debenedetti dà vita a un’altra delle speranze di cui gli ebrei romani non vollero fare a meno, la speranza che i tedeschi avessero una parola e la mantenessero. Avevano voluto 50 chili d’oro dalla comunità ebraica di Roma, ebbene quei chili li avevano avuti tutti. Come si poteva credere che ciò nonostante facessero quello che una donna romana “vestita di nero, scarmigliata, fradicia di pioggia” andava gridando per le viuzze del ghetto di Roma, che i tedeschi si stavano apprestando a rastrellare le famiglie ebree di cui avevano gli indirizzi? Come si poteva credere che fossero capaci di una tale infamia?

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