L'umanesimo secondo Debenedetti è un lampo che dal passato profetizza il presente

Alfonso Berardinelli

Discussioni attorno alla crisi culturale contemporanea

Anche dando solo un’occhiata all’enorme quantità di pubblicistica sociale e politica, civile e morale, si nota la frequenza con cui ricorre il termine “umanesimo”. Non si tratta di una nozione puramente storica (la fase cioè della cultura italiana che seguì all’autunno del Medioevo e preparò il Rinascimento). Se oggi si parla di umanesimo è perché la crisi culturale da cui nascono le crisi politiche è così profonda da mettere in dubbio che il prossimo futuro sarà ancora definibile come umano.

  

Leggo sull’ultimo numero dell’Espresso quello che dice il filosofo tedesco Julian Nida-Ruemelin: “Per molti teorici del digitale il futuro sarà segnato da una fusione totale di macchine e uomo, da un’èra transumana in cui i robot saranno l’amico più affidabile dell’umanità”.

  

Questo stesso filosofo è autore di un libro intitolato Umanesimo digitale, pubblicato in Italia da Franco Angeli, titolo e libro che sul momento sembrano ispirati da quel tranquillo ottimismo progressista che dà per scontata una cosa tutt’altro che certa e garantita: che cioè gli esseri umani resteranno identici a se stessi secondo millenaria tradizione umanistica, senza essere per così dire “robotizzati” dai loro fedeli servitori robot. In realtà il filosofo tedesco non è così ingenuo. Nel corso dell’intervista arriva al dunque: “Gli ingegneri informatici non si sentono né si definiscono umanisti, ma trans-umanisti. Per loro non esiste differenza fra qualcosa come il genere umano e le macchine”. Questo è il tema del momento. Senza occuparsi del quale ci si presenta impreparati quando si affronta l’altro tema oggi protagonista: la crisi della democrazia, che secondo Michael Walzer corre gravi rischi, per la prima volta, anche negli Stati Uniti.

  

A ricordarmi che cosa è stato l’umanesimo nel secolo scorso è la pubblicazione presso La nave di Teseo di un classico della nostra critica letteraria, Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti. Uscito per la prima volta nel 1971 da Garzanti con prefazione di Eugenio Montale, il volume raccoglieva le lezioni tenute all’Università di Roma nei primi anni sessanta da quel geniale intellettuale ebreo, primo interprete di Proust, Saba, Svevo e lettore di Freud e Einstein. Se si voleva fondare un umanesimo critico all’altezza della modernità e delle crisi morali e sociali novecentesche, secondo Debenedetti non si poteva evitare lo studio di forme e personaggi della nuova narrativa. Nel personaggio-uomo, nella figura umana in quanto personaggio, nel suo carattere e destino, nel suo sempre instabile, squilibrato rapporto con la società borghese sviluppata, Debenedetti riconosceva il disagio e i problemi di tutta la civiltà occidentale, dalla fine della Belle Epoque alle due guerre mondiali.

 

Dunque Debenedetti critico umanista, neoumanista, umanista problematico, per il quale la letteratura e soprattutto il romanzo erano da intendersi sia come sintomi che come diagnosi e forse terapie della crisi in atto. Montale, maestro dell’understatement, scriveva così nel 1971: “Tra parentesi: il lettore di questi saggi si può chiedere che cosa penseranno di simili problemi gli uomini di domani: di un tempo che vedrà probabilmente stingere sempre più l’uno nell’altro i generi e le forme; un tempo di oggetti che non saranno né poesia né musica né pittura né teatro ma unicamente se stessi e che saranno materia di rapido consumo e obsolescenza. In quel tempo però sarà del tutto inutile la critica e Debenedetti era nato per quell’arte di secondo grado (non di second’ordine) che è la critica”.

 

E’ un lampo a sorpresa che dal passato profetizza il nostro presente. Succede con Debenedetti e succede con Montale, tutti e due eccezionali nell’arte della naturalezza richiesta dal genere saggistico, liberamente ondeggiante tra focalizzazione concettuale e divagazione nell’immaginario. La passione intellettuale e morale che animava la critica di Debenedetti, impegnato a capire o prevedere il genere di umanità annunciata dalle deformità espressionistiche dei personaggi novecenteschi, è una passione che oggi sembra superflua. Siamo al di là di un umanesimo della crisi novecentesca. Gli oggetti d’arte hanno scarsa durata, si accumulano precipitando presto nell’oblio. La deformità e la deformazione, invece che scandalo, provocazione, sorpresa, allarme e dolore non sono più casi singoli ma fenomeni di massa. Accadde nei regimi totalitari, che fusero mediocrità e follia, crimini e prassi burocratica. Accade ora nelle democrazie postmoderne in mutazione ininterrotta. Secondo gli empiristi inglesi l’etica, più che nella fede in Dio, ha origine nello sguardo con cui due esseri umani si riconoscono. Noi invece stiamo divinizzando le macchine, adorandole e ubbidendo alle loro leggi. Quanto a guardarsi umanamente negli occhi, non c’è cosa che si eviti più volentieri.

Di più su questi argomenti: