Adolf Hitler e Benito Mussolini nel 1942 (Olycom)

Uffa!

Tra leggi razziali e miopia guerriera, il Duce toccò l'apice della vergogna

Giampiero Mughini

Benito Mussolini scelse di sacrificare le vite italiane pur di sedersi al tavolo dei vincitori, valutò male la potenza britannica e le possibilità dell'esercito italiano. "M. Gli ultimi giorni dell'Europa" di Antonio Scurati 

E siccome in un romanzo quelli che contano sono i particolari, le sfumature, le sfaccettature dei personaggi in campo, ecco che nel terzo volume (M. Gli ultimi giorni dell’Europa, Bompiani, 2022) di quello che Antonio Scurati reputa un romanzo, il momento che mi ha lasciato senza fiato è quello in cui Scurati racconta l’arrivo a Roma l’11 gennaio 1939 del premier britannico Neville Chamberlain. Sono i mesi della vergogna italiana afferente alle leggi razziali – volute da Benito Mussolini per più strettamente avvinghiarsi al prepotente destino della Germania nazi –, quei due anni in cui sta covando la partenza della Seconda guerra mondiale, e seppure in qualche occasione il Duce temperi la libidine guerriera del Fuhrer.

Chamberlain è venuto in Italia per questo, a spingere ulteriormente Mussolini nel suo ruolo di mediatore e difensore della pace. Chamberlain, scrive benissimo Scurati, ha un’aria qualunque, è alto, allampanato, si protegge con un ombrello quando scende sul marciapiede della stazione di Roma. E’ in borghese mentre il Duce gli va incontro tronfio nel suo cappotto militare con il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano al suo fianco. Lo stesso Ciano tra sé e sé irride all’aspetto bonario e come dismesso del premier inglese. Pensa di avere a che fare con un ometto che non ha più nulla di quella razza inglese che a forza di navi da combattimento le più micidiali aveva conquistato mezzo mondo. Eccome se lui condivide le parole di un Duce divenuto la caricatura del protagonista risoluto e originale che dal nulla divenne il più giovane capo politico della storia italiana. Parole così: “Questi uomini non sono più della pasta dei magnifici avventurieri che conquistarono il mondo. Questi sono ormai i figli stanchi di una lunga serie di ricche generazioni”. Ebbene, appena tornato dall’Italia l’ometto con l’ombrello autorizza ove necessaria la messa in atto di un piano d’attacco pronto dal 1935 e che sarà travolgente nei confronti delle forze militari italiane. Quando verrà il momento, e mentre loro nell’estate 1940 avevano saputo reggere le belluine folate della temutissima aviazione nazi, gli inglesi distruggeranno senza colpo ferire il meglio nella nostra marina militare ancorata al porto di Trapani, terranno Malta talmente presidiata che le forze militari italiane non proveranno a farle almeno un baffo, ce le suoneranno per bene in Africa dove peraltro i nostri sventurati fanti si batterono valorosissimamente a El Alamein, spazzeranno via in poche settimane le difese italiane al momento dello sbarco alleato in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio 1943. Del resto in quell’avvio del 1939 in Italia lo sapevano tutti che al ritmo cui la nostra industria produceva le armi necessarie a una guerra moderna, l’esercito italiano sarebbe stato atto alla bisogna non prima del 1950. 

Sì, l’apice della vergogna di quell’empatia con i nazi erano state le leggi razziali promulgate nel novembre 1938. Dall’oggi al domani i bimbi ebrei in Italia non possono frequentare le scuole pubbliche, 300 docenti vengono epurati, i cittadini ebrei non possono essere proprietari di fabbricati urbani il cui imponibile sia superiore a ventimila lire, gli ebrei non possono esercitare il mestiere di giornalista né quello di notaio, l’eventuale podestà ebreo seppure apprezzatissimo dai suoi concittadini deve abbandonare il posto. E’ il caso del podestà di Ferrara, Renzo Ravenna, ex combattente della Prima guerra mondiale, fascistissimo, amico fraterno di Italo Balbo, il quale non smetterà un attimo di ostentare questa amicizia seppure al tempo della disgrazia di Ravenna. Non che Mussolini non lo intraveda il pericolo di essersi stretto mani e piedi a un alleato di tanto più potente e minaccioso.

Scurati si avvale della intelligente  testimonianza di Grigore Gafencu, ministro degli Esteri rumeno dal 1938 al 1940, che incontra il Duce a Roma nella primavera del 1939 e ne scrive così: “Si vedeva trascinato su una via che egli stesso aveva aperta, prigioniero del sistema che gli doveva la vita, e di passioni che egli aveva scatenato, verso uno scopo che gli sembrava per lo meno incerto. Avendo provocato il vento, temeva la tempesta”. 

Il 18 marzo 1940 Hitler e Mussolini si incontrano in un vagone ferroviario fermo al Passo del Brennero. Hitler ha già fatto poltiglia dell’esercito polacco, pure ritenuto uno dei migliori al mondo. Gli resta da scatenare l’attacco contro la Francia e questo mentre Mussolini tentenna eccome da quanto i suoi capi militari gli raccomandano di stare ben lontano dalla guerra. Hitler parla incessantemente per quasi tre ore, enumerando le attrezzatissime divisioni di cui dispone, la quantità e varietà dei suoi carri armati d’assalto, i 6.000 aerei che l’industria tedesca produce ogni mese, come funzionano le mitragliatrici di cui dispongono le sue truppe. Mussolini non ha la forza di aprire bocca. Il 10 maggio 1940 è lo sferragliare di sette divisioni corazzate tedesche che perforano i faggeti delle foreste delle Ardenne e colgono di sorpresa le difese francesi. Mussolini manda una lettera al Fuhrer in cui gli dice che sta per mettere in campo le sue truppe a dargli sostegno. I nostri capi militari lo dicono e lo ripetono che non abbiamo carri armati, non abbiamo cannoni moderni, non abbiamo un numero di camion sufficiente per il trasporto delle truppe. Mussolini dal canto suo è convinto che se Hitler si incazza a causa della nostra neutralità ci invade e in tre giorni arriva ai piedi dello stivale. Gli occorre qualche morto italiano per poi sedersi al tavolo in cui avverrà la spartizione del bottino. Dichiariamo guerra a una Francia in ginocchio e le andiamo addosso in un rapporto di forze di sei contro uno. Non riusciamo ad avanzare di un metro. I francesi si arrendono ai tedeschi ma non a noi, che siamo stati incapaci di far loro la guerra. Vergogna vergogna vergogna.