La foto con Segre, una delle rare volte in cui si fatica a trovare un commento rabbioso o critico sotto a un post di Chiara Ferragni (foto Instagram) 

Le mille luci della shoah

Andrea Minuz

La potenza delle immagini contro la tesi dello sterminio “irrappresentabile”. È tempo di aggiornare la memoria

È stata subito archiviata come un’immagine-simbolo del nostro tempo. L’emblema della “trasmissione della memoria presso la generazione TikTok”, con titoli naturalmente già pronti per i giornali, “l’influencer e la testimone”, “la memoria e le stories”, “la coscienza civile di Instagram” e così via. Nello scatto che immortala Liliana Segre e Chiara Ferragni non c’è nessuna ritualità o stretta di mano con sorrisoni, come usa per le firme di qualche storico accordo, anche se, come ha scritto Assia Neumann Dayan, passerà agli atti come “il giorno in cui il Novecento e gli anni Venti del Duemila si incontrarono”. Sembra anzi una foto qualsiasi di una qualunque nipote che è andata a trovare la nonna una domenica a pranzo. Entrambe eleganti, rilassate, distese sul divano del salotto di casa, un sobrio interno borghese un po’ retrò: tappeti persiani, parquet di noce, quadri e specchi d’antiquariato alle pareti crema.

 

Come ormai capita quasi con tutto, anche in questa strana partnership c’è di mezzo un podcast. Fedez che invita Segre a partecipare al suo “Muschio Selvaggio” e lei, Segre, che invita Ferragni a “Binario 21”, il memoriale di Milano che languisce visitatori, soprattutto tra i più giovani (“il mio cruccio”, dice Segre, “è che i ragazzi conoscono poco questo luogo e le storie che vi sono custodite”). Spronata anche dai suoi nipotini, la senatrice pensa allora che Chiara Ferragni possa essere la persona giusta. Si tenta così di replicare il fatidico “modello Uffizi”, nella convinzione che tutto quello che tocca Ferragni diventi automaticamente “attrattivo”, coinvolgente, “supercool”, comunicabile in modo semplice e immediato, basta aggiustare un po’ il dress-code. 

   

Liliana Segre centra il punto: “Gli studenti vengono al Memoriale perché li portano in gita. A me piacerebbe che venissero spontaneamente”

  
Però mettendo casomai i lager e i treni al posto della “Nascita di Venere”, ecco subito il primo paradosso. Mentre non ci sarebbe nulla di male a usare le reginette di Instagram per far venire voglia di visitare un museo, l’accostamento con la memoria della Shoah non è così scontato e qualche cautela o perplessità potrebbe in fondo anche sollevarla. E invece, come si sa, la campagna dell’influencer per Botticelli generò un diluvio di polemiche con indignazioni a cascata dei vari Montanari e magistrati del gusto e custodi della sacralità museale (risultato: più ventisette per cento di visite “giovani” nei mesi a seguire), mentre la foto con Segre mette tutti d’accordo. E’ anzi una delle rare volte in cui si fatica a trovare un commento rabbioso o critico sotto a un post di Chiara Ferragni. Solo cuori, complimenti, applausi, bravi, che bello. La cosa non può che rallegrare. Ma ribadisce anche che nella nostra piramide di valori arrivano prima l’ossessione per la “bellezza”, “di cui l’Italia è madre”, come diceva il Vate, e l’angoscia sempre tremenda per la “mercificazione” della cultura; mentre, tutto sommato, “testimoni” e “testimonial” possono anche stare bene insieme (come in quella puntata di “Curb Your Enthusiasm” in cui Larry David si trova a cena in mezzo a una litigata tra un “survivor”, inteso come partecipante dell’omonimo reality, e un sopravvissuto dell’Olocausto, ognuno rivendicando il primato del proprio “percorso”  di privazioni, fame e sofferenza). 

 
C’è un passaggio delle dichiarazioni di Liliana Segre che centra però subito il punto: “Gli studenti in genere arrivano al Memoriale di Milano perché li portano i professori in gita scolastica. A me piacerebbe che venissero spontaneamente e qui Chiara Ferragni serve alla causa”. Un obiettivo smisurato e bellissimo, anche per smetterla con la “gita”, che alle medie o al liceo fa subito scampagnata, appiccicata sopra la Shoah. Non si sa se Chiara Ferragni al “Binario 21” innescherà automaticamente nei suoi follower la curiosità di saperne di più, andarci, capire cosa è successo e perché. Il problema di un aggiornamento di linguaggi, tonalità e forme del “racconto della memoria” si pone però ormai da anni. E non è certo la prima volta che si scomoda Instagram. Lo scorso anno, per il “giorno della memoria”, si affidarono le “pietre d’inciampo” a un’agenzia di creativi che coinvolse vari influencer milanesi (come al solito a Milano si danno un gran da fare, a Roma i lavori per il Museo della Shoah a Villa Torlonia, annunciati la prima volta nel 2005 da Veltroni sindaco, sono iniziati ora). Nel 2019 fece invece molto discutere il progetto, “Eva Stories”, costruito sull’ipotesi controfattuale, “se una giovane ragazza ungherese avesse avuto Instagram durante l’Olocausto” (la ragazza era esistita davvero, si chiamava Eva Heyman, teneva un diario durante l’occupazione nazista, che ora riviveva giorno per giorno attraverso post, foto e stories su Instagram). I social, insomma, sollecitano un nuovo modo di raccontare la Shoah. Però le visite pedagogiche ad Auschwitz producono anche l’istinto irrefrenabile di farsi un selfie o magari scrivere una recensione su TripAdvisor (Auschwitz-Birkenau è uno dei siti più commentati della piattaforma, ai livelli del Colosseo o del Louvre, con recensioni come “nel suo genere di museo dell’orrore non posso non dargli il punteggio massimo, cioè cinque palline”). 

 

Il brivido di terrore che assale all’idea di Auschwitz trasformato in Pompei: un parco votato alla morte, ma nessuno sente più il dovere del raccoglimento

 
Qualche anno fa, Sergei Loznitsa, regista ucraino, immortalò i visitatori di Sachsenhausen, un campo di concentramento in Germania, in un documentario bellissimo e spietato, “Austerlitz” (omaggio al romanzo di Sebald, ma anche alla gaffe di Dibba alla Camera, quando disse che “Napoleone combatteva sui campi di Auschwitz”). Camera fissa, immagini in bianco e nero, nessun commento, e un gran via via di turisti ignari che si fanno i selfie con l’asta, bevono, mangiano, ridono, mettono su un pic-nic “sur l’herbe” davanti le camere a gas. Potremmo essere a Disneyland o a Pompei. Del resto, la spietatezza di “Austerlitz” è tutta qui: nel brivido di terrore che assale all’idea di un Auschwitz trasformato un giorno in Pompei: un parco turistico-archeologico votato alla morte, ma dove ormai nessuno sente più il dovere del raccoglimento, né alcun conflitto etico con selfie e picnic. Non più uno scenario di tracce e prove che raccontano “ciò che è stato”, ma un luogo celebre e “iconico” evocato nei libri di storia e nei film. Alla domanda rivolta tempo fa a campione agli studenti italiani del liceo, “cosa indica il termine Shoah?”, alcuni risposero, “la scomparsa dei dinosauri” (forse confondendosi con “Jurassic Park”, uscito lo stesso anno di “Schindler’s List”, entrambi di Spielberg). E’ probabile che oggi, leggendo in classe “Se questo è un uomo”, pensino alla comunità di dannati di “Squid Game”, e non è detto che la cosa debba scandalizzare. 

 
La memoria della Shoah reclama anche una continua costruzione narrativa delle voci e delle testimonianze in forma di nuovi scenari, storie, situazioni, racconti in grado di essere compresi anche quando i testimoni oculari saranno scomparsi. In un fortunato saggio di qualche anno fa, Marianne Hirsch parlava appunto di un’epoca della “post-memoria”: un rapporto con un evento non più mediato dai ricordi diretti, ma da un forte e diffuso investimento dell’immaginazione e dell’invenzione artistica o narrativa (Hirsch prendeva spunto da “Maus”, la graphic novel di Art Spiegelman, che all’alba degli anni Ottanta spalancò le porte a un nuovo modo di raccontare la Shoah, e che oggi viene invece censurata per “nudità” e parolacce in un liceo del Tennessee). Insieme al piano “conservativo”, cioè accanto alla tutela e alla conservazione delle fonti testimoniali, c’è un piano elaborativo che va tenuto vivo. Come ricordava già un po’ di tempo fa David Bidussa: “A lungo ci si è preoccupati del primo problema. Forse è giunto il momento di affrontare il secondo problema”. 

 

Il saggio di Arturo Mazzarella “La Shoah oggi”: un piano “elaborativo” accanto a quello “conservativo”, di tutela delle fonti testimoniali

 
L’ultimo saggio di Arturo Mazzarella, professore di Letterature comparate a Roma Tre (“La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini”, uscito poche settimane fa per Bompiani) parte proprio da qui. Negli ultimi anni, il lavoro storiografico sulla Shoah è diventato “talmente capillare da coprire quasi ogni suo segmento (dai minimi dettagli di ordine politico e sociale ai diversi aspetti di una cultura materiale che lo sterminio programmatico non è riuscito a sopprimere)”, eppure, nota Mazzarella, la Shoah rimane sempre e costantemente “al centro della rappresentazione estetica”. Sappiamo tutto, ma continuiamo a interrogarci. Il fenomeno è inarrestabile e non conosce pause o fratture: film, eventi, nuovi musei, mostre, installazioni artistiche, opere di street-art, libri impegnativi o romanzetti Harmony che si muovono sullo sfondo dei campi. Nelle prima pagine Mazzarella riporta un elenco non esaustivo di romanzi “di consumo” che orbitano intorno alla Shoah, pubblicati dal 2015 in poi. Lo scorriamo con la stessa vertigine delle sconfinate catene di nomi nelle genealogie bibliche: testimonianze che generano storie che generano sequel, prequel o spin-off anche nei titoli: “Il pianista”, “La pianista di Auschwitz”, “Il violino di Auschwitz”, eccetera. 

 
C’è poi un’ormai vastissima riflessione teorico-estetica che va dalle interdizioni di Adorno, Wiesel o Lanzmann sull’“irrappresentabilità” di Auschwitz alla sua sfrenata circolazione in film, romanzi, fumetti e qualsiasi altra cosa. Qui il saggio più innovativo apparso negli ultimi anni, come ricorda lo stesso Mazzarella, è senz’altro “Immagini malgrado tutto”, dello storico dell’arte, George Didi-Huberman. Un piccolo testo sulla potenza testimoniale delle immagini (quattro fotografie scattate clandestinamente davanti al crematorio di Auschwitz nell’estate del 1944, unica prova visiva delle cremazioni), e allo stesso tempo una potente confutazione delle tesi che proiettano lo sterminio nell’iperspazio dell’indicibile, dell’inimmaginabile, dell’irrappresentabile. “La Shoah oggi” integra e rilancia allora la prospettiva di Didi-Huberman. La applica anzitutto al campo di quella letteratura testimoniale che si è misurata con la sfida della Shoah. Si rilegge così in modo nuovo tutto un canone di opere e autori di un “pantheon della memoria”: da Primo Levi a Celan, da Antelme a Semprún e Sebald, o anche la Marguerite Duras del “Dolore” (una “narrazione autobiografica inspiegabilmente quasi ignorata dalla letteratura sulla Shoah”). Racconti e testimonianze e stili di scrittura diversi ma tenuti insieme dalla forza della “visione”. Non solo il cinema o i documentari dunque, ma anche la letteratura concentrazionaria è un campo segnato dal dominio dell’immagine, dalla “battaglia” per la visibilità, dalla circolazione o dall’interdizione degli sguardi (nel saggio c’è una formidabile lettura “ottica” di “Se questo è un uomo”, in cui la scrittura di Levi sconfina dalle parti dell’ossessione descrittiva del “Palomar” di Calvino). Non più “immagini malgrado tutto”, allora, ma “immagini soprattutto”: “Immagini difese, custodite, riproposte con la cura e la dedizione costante che solo una sorta di strenua iconofilia può alimentare”. 

 

Insistere sulla vocazione visiva della letteratura della Shoah contro il fascino esoterico delle posizioni iconoclaste, per costruire un nuovo canone di opere

  
Insistere su una vocazione visiva della letteratura della Shoah, contro il fascino esoterico delle posizioni iconoclaste, permette anche di costruire un nuovo canone di opere dove Sebald o Améry possono stare insieme al film-monstre di Godard, “Histoire(s) du cinéma”, ai film-performance di Harun Farocki e al documentario di Resnais, “Notte e nebbia”, di cui si ribadisce in questo saggio la portata decisiva (non a caso, ancora oggi, con le piattaforme che grondano documentari e docufiction sull’Olocausto, “Notte e nebbia” è ancora uno dei più visti e utilizzati nella didattica della Shoah). Realizzando il suo film su commissione, nel decimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, Resnais è stato forse tra i primi a capire che l’opera di testimonianza proposta da un documentario si misura non già con dei “fatti”, ma con i “fantasmi dei fatti”, come li chiamava Sciascia (evocato da Mazzarella già nel suo precedente saggio, “Politiche dell’irrealtà”, dove si mettevano insieme Lynch e Houellebecq, Herzog e le fotografie di Abu Ghraib, sullo sfondo di quell’intricato groviglio di fatti, immagini, testimonianze, negazioni e manipolazioni che segna la nostra cultura visiva, come tragicamente ci ricorda ogni giorno anche il conflitto in Ucraina). 

 
Così, verso la fine di “La Shoah oggi”, nell’ultimo capitolo di un libro che è pensato come una sinfonia in tre movimenti (chi è stato nei lager, chi ha ereditato e raccolto la testimonianza dei lager e poi noi, oggi, di fronte a una massa di immagini, storie, musei, racconti), si torna alla domanda di partenza. A quegli interrogativi che assillano ormai da anni studiosi e storici, e che spingono Liliana Segre a chiedere una mano anche a Chiara Ferragni: cosa succederà quando i testimoni oculari della Shoah saranno tutti scomparsi? Come “useremo” quel vasto oceano di opere che hanno costruito la nostra idea di memoria della Shoah? E ancora: che ne sarà della Shoah in una cultura globale che non le assegna quel primato che le diamo noi occidentali? E come la si racconta a chi è nato dopo l’11 settembre, e tende e sempre più tenderà a infilarla in una vaga nebulosa del passato, insieme a tanti altri orrori, traumi, catastrofi?  Forse, oltre a mandare gli influencer in giro per musei e campi di concentramento, un ottimo inizio potrebbe essere rendere sempre attuale e viva, al di là della loro evidenza storica e testimoniale, l’inquietudine delle opere di Améry, Celan, Levi, Resnais e tanti altri.

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