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l'Italia di allora

Ottant'anni fa il primo grande racconto di M alla conquista del potere

Giampiero Mughini

Riedito il libro di Guido Dorso, l'avvocato gobettiano che scrisse negli anni tra l'apice del fascismo e la sua caduta. Una ricostruzione che spiega bene chi fossero i "cattivi" del tempo e pone la domanda fondamentale: i "buoni" dov'erano?

Quando nei miei primissimi vent’anni ero divenuto un suddito della casa editrice Einaudi, i due autori di quel loro catalogo editoriale determinanti per la mia formazione furono Antonio Gramsci e l’avellinese Guido Dorso. Il primo mi acclimatò con l’italocomunismo, il secondo con gli aromi della matrice gobettiana che era stata la sua negli anni Venti, al tempo dell’avvento vittorioso del fascismo. Più tardi sarebbe stato mio professore di Letteratura italiana all’università un altro avellinese d’eccezione, il Carlo Muscetta che nell’immediato dopoguerra aveva importato nel catalogo torinese i libri di Dorso, morto precocemente nel 1947 a soli 52 anni. E difatti tre dei quattro libri einaudiani di Dorso, che di mestiere faceva l’avvocato, sono postumi. L’unico suo libro pubblicato in vita era stato La rivoluzione meridionale, edito da Gobetti nel 1925 (quando Dorso aveva trent’anni), una sciccheria di cui ben sanno gli appassionati di quel valorosissimo editore. Sì, di Dorso devo avere più e più volte parlato con Muscetta lungo gli anni della nostra amicizia, finché lui non disse a mia madre che non aveva più intenzione di incontrarmi e questo dopo la pubblicazione nel 1987 del mio Compagni addio.

Ebbene il primo dei libri einaudiani di Dorso curati da Muscetta fu nel 1949 (Dorso era morto da due anni) il Mussolini alla conquista del potere, un libro che l’avvocato avellinese aveva cominciato ad apprestare nel 1938. Quando il fascismo era giunto al massimo della sua sovranità sulla società italiana e seppure non fosse lontana la soglia del burrone su cui sarebbe precipitato trascinandosi appresso il nostro paese tutto intero. Un libro che alla morte di Dorso era ancora largamente in fieri. Solo ne restava la documentazione di fondo da lui raccolta nonché una sorta di linea narrativa che unificava quella documentazione. Mi immagino che di quel libro si sia avvalso Angelo Tasca nel suo Nascita e avvento del fascismo del 1950, il testo capitale nell’accendere il lavoro storiografico di Renzo De Felice, del primo che non si è limitato a maledire il fascismo mussoliniano e i suoi orrori e ha invece cercato di capire perché ha vinto ed è durato avendo dalla sua larghissimi consensi. In questi ultimi anni più e più volte il Mussolini di Dorso è stato riedito. E’ del 2022 l’edizione che porta il marchio di quell’altro gran signore dell’editoria italiana che ha nome Nino Aragno. 

Eccome se vale la pena leggere il libro di Dorso se volete sapere che cosa stava accadendo nella società e nella politica italiana quando una banda di facinorosi avviò quella sgangherata “marcia su Roma” che permise al Duce trentottenne di montare alla sera del 29 ottobre 1922 su un vagone letto che dalla stazione di Milano lo avrebbe portato a ricevere dalle mani del Re il bastone del comando politico, un comando divenuto più tardi assoluto. Ottant’anni prima dei vendutissimi libri di Aldo Cazzullo e Antonio Scurati, l’avvocato gobettiano mette assieme giudizi e dati di fatto molto interessanti. A cominciare dall’analisi della follia politica di un partito socialista che per anni se ne era stato a minacciare la borghesia di romperle le ossa e che al momento buono sarà soverchiato quanto a uso della violenza dagli squadristi, molti dei quali si erano cimentati nelle imprese più ardite della Prima guerra mondiale e molti dei quali erano dei teppisti. E tanto più che il Mussolini direttore del Popolo d’Italia è abilissimo nel far passare l’idea che la violenza dei fascisti è una “rappresaglia” di quella esercitata a lungo dalla sinistra italiana la più barricadiera. Un partito socialista al quale, nel gennaio 1921, dà il colpo di grazia il nucleo che se ne allontana da sinistra (fra di loro l’Angelo Tasca che trent’anni dopo arrovescerà le sue posizioni del gennaio 1921) perché vogliono fare quel che avevano fatto i bolscevichi in Russia, il nucleo che darà vita al Partito comunista d’Italia.

Da quel momento in poi il Partito socialista non è più una forza politica sulla quale fare affidamento, dato che al suo interno si dilanieranno tre o quattro opzioni le più contrastanti l’una all’altra. Il Mussolini del luglio 1921 irride il Filippo Turati socialista che è andato dal Re a dirsi pronto per fare un governo di coalizione antifascista, e lo fa col ricordare che il Partito socialista aveva espulso dalle sue fila un funzionario della Camera colpevole nientemeno che di avere partecipato al corteo funebre di Re Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico il 29 luglio 1900. Beffe a parte, è come se l’intero spettro della politica italiana tradizionale si rivelasse tra 1921 e 1922 impotente innanzi all’ascesa del fascismo. Quando non complice. Al momento della selvaggia aggressione del 4 agosto 1922 contro i locali della redazione milanese dell’Avanti! a via Settala, le guardie regie che avrebbero dovuto proteggere i quindici socialisti che vi si erano asserragliati si ritraggono indietro tra gli applausi delle camicie nere. Era il quinto assalto fascista contro la sede milanese del quotidiano socialista, che tirava allora la bellezza di 300 mila copie.

Chi fossero i “cattivi” in quel mese di ottobre del 1922, non v’ha dubbio. Ma dove diavolo erano i “buoni”, quelli che avrebbero dovuto contrastare le tre colonne fasciste che puntavano su Roma? Avrebbe potuto esserlo l’esercito, ove ne avesse ricevuto gli ordini dal cinquantaduenne generale Pietro Badoglio? Nemmeno per idea, la buona parte degli alti ufficiali dell’esercito stavano dalla parte di Mussolini. Alla tarda mattinata del 30 ottobre il Re gli conferì il comando politico. Gli squadristi non avevano versato una sola goccia di sangue. Il 2 novembre 1922 Mussolini sedeva nel suo gabinetto quando lo scrittore Paolo Orano venne a intervistarlo. “Il governo c’è, ci sono io”, gli disse il Duce.

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