Manifestazioni del sessantotto francese (Wikipedia) 

uffa!

Le "quattro cazzate rivoluzionarie" che non ci salvarono da Mao

Giampiero Mughini

Marco Bellocchio ha dedicato uno splendido film al fratello morto suicida nel '68. Una generazione che si aggrappò all'ideologia per imparare a vivere e che Adolfo Scotto di Luzio racconta nel libro "Nel groviglio degli anni Ottanta"

Nello splendido film che Marco Bellocchio ha dedicato al fratello gemello Camillo morto suicida nel 1968, un film dove gli attori – tutti impagabili  – sono i fratelli sorelle e nipoti di Bellocchio, c’è un momento indimenticabile. Il momento in cui Marco rievoca un colloquio col fratello gemello in cui cerca di portarlo dalla sua parte di allora, quella di un intellettuale profondamente “engagé” a sinistra, laddove Camillo non vedeva nell’impegno politico il sentiero a lui il più propizio, di certo non quello che attenuasse le sue fragilità. Non era la politica e tantomeno l’ideologia la maniglia cui lui potesse aggrapparsi nell’affrontare il mestiere più difficile di tutti, il mestiere di vivere. “Marx può aspettare” mormora Camillo al fratello. Il Marco Bellocchio di oggi ci dice – ed è un momento in cui l’emozione del racconto cinematografico tocca il suo vertice  – che lui controbatté gli argomenti del fratello “con quattro cazzate rivoluzionarie”, le cazzate di uno che a quel tempo stava costeggiando il maoismo dell’Unione dei marxisti-leninisti, il groupuscule italiano post Sessantotto il più sciagurato di tutti. Quelli che il primo maggio del 1969 deambularono per le strade di Milano, Roma, Catania (la mia città) sotto le gigantografie di Mao e di Stalin, due criminali politici non da poco. Quel primo maggio del 1969 li pedinai i miei compagni di generazione mentre andavano in corteo, urlando insulti contro i dirigenti sindacali che capeggiavano un corteo dieci o venti volte più grande del loro e finché il servizio d’ordine del sindacato non gli si avventò contro, e ce l’ho ancora innanzi agli occhi l’immagine dei venti o trenta maoisti catanesi che se la davano a gambe.

Non che io fossi allora al punto culminante della mia maturazione “revisionista”, ma quanto a quelli che sventolavano il libretto di Mao li reputavo dei cialtroni punto e basta. Con alcuni di loro ce ne scagliammo in volto di tutti i colori. Uno di quei miei compagni di generazione scrisse non ricordo più su quale fogliaccio che al momento buono avrebbero provveduto a mandarmi in Albania per rieducarmi. Era figlio di una delle più agiate  famiglie borghesi di Catania. Una decina di anni dopo mi telefonò e venne a casa mia a rimangiarsi quelle parole e a tentare di riannodare un rapporto tra noi. Lo accolsi civilmente, epperò non ci potevo passare sopra a quell’antica minaccia di spedirmi in Albania. Non potevo proprio. Laddove la volta che incontrai in un’aula milanese Aldo Brandirali, il capo carismatico dell’Unione dei marxisti-lenisti che nel frattempo s’era raschiato di dosso tutta quella muffa ideologica, lo abbracciai.

Chiedo scusa se nel raccontarvi di quegli anni non riesco a prescindere dalle stimmate profonde che quei tempi hanno lasciato sulla mia pelle. Non so se vorrei essere al posto di uno che è “venuto dopo”, il professore Adolfo Scotto di Luzio (nato a Pozzuoli nel 1967) che insegna all’Università di Bergamo e che ha scritto un gran bel libro su quegli anni arroventati (Nel groviglio degli anni Ottanta, Einaudi, 2020), di cui lui può scrivere come di un “altrove” rispetto alla sua vicenda generazionale. Accenno con colpevole ritardo a questo libro edito già da alcuni mesi, perché era rimasto seppellito in una delle dieci o dodici pile di libri di cui piange la stanza in cui lavoro. Finalmente l’ho recuperato, e da quando ho cominciato a leggerlo non l’ho più lasciato. Scotto di Luzio si muove a meraviglia tra i fatti e i libri di un’epoca ormai lontana ma talmente cruciale. Va dalla Bologna del Settantasette dove sbocciarono i fumetti di Andrea Pazienza e il rock dei Gaznevada ai film di Sam Peckinpah talmente esemplari di una stagione, dalle aule universitarie berlinesi dove Herbert Marcuse e i suoi studenti in parte collimavano e in parte colluttavano fino alla notte dell’11 maggio 1968 quando le famiglie che abitavano nella parigina rue Gay Lussac accolsero in casa gli studenti (io uno di quelli) a proteggerli dalla vendetta dei Crs furibondi perché molti loro colleghi avevano avuto la testa sfrantumata dai pavés provenienti dalle soffitte di palazzi alti quattro o cinque piani.

A proposito dei maoisti, che in tutta Europa costituirono uno spicchio importante della generazione “sessantottina” a cominciare dalla Francia dove per un tempo quelli della Gauche prolétarienne ebbero dalla loro nientedimeno che Jean-Paul Sartre, Scotto di Luzio si sofferma su un fenomeno peculiare al maoismo francese. Ossia il fenomeno degli établis, quelli che si “stabilirono” in fabbrica identificandosi con il loro posto di lavoro, quei militanti e intellettuali borghesi che decisero di condividere in toto la realtà umana e professionale della classe operaia cui facevano costante riferimento: scelsero di andare a lavorare in fabbrica, otto ore al giorno alla catena di montaggio. Era il loro modo di affermare nei fatti che Marx non poteva aspettare. Una scelta palesemente irrealistica se additata quale modello di comportamento valido per un’intera generazione, ma di tutto rispetto sul piano morale. 

Com’è di tutto rispetto il libro, L’établi, che un ex militante della Gauche prolétarienne, il futuro sociologo Robert Linhart (nato nel 1944 in una famiglia ebrea di origine polacca) pubblicherà nel 1978, dieci anni dopo la sua esperienza di établi alla catena di montaggio di una fabbrica parigina della Citroën a Porte de Choisy. Pubblicato in Italia da Feltrinelli l’anno dopo, è un libro asciutto, implacabile. Leggi e ti trovi in imbarazzo al pensiero di avere avuto la fortuna di non doverti guadagnare il pane in quel modo, sempre gli stessi gesti e sempre fatti nello stesso tempo, dalla sette del mattino quando entri in fabbrica alle 17,45 quando ne esci. Pochi anni dopo la pubblicazione del libro, nel 1981, Linhart tentò il suicidio. A differenza di Camillo Bellocchio non ci riuscì.