Marco Bellocchio a Cannes 2021 (Ansa) 

uffa!

Il film di Marco e i ricordi dei fratelli Bellocchio

Giampiero Mughini

Quegli incontri, quelle persone, quei libri: la mia estasi e il tormento di poi. "Marx può aspettare" è un film che riporta la memoria a un periodo di conflitti, passioni e che ora è ridotto a un panorama di rovine

Non avessi prenotato dieci giorni di vacanza in Puglia dalle parti di Gallipoli, dove mi trovo in questo momento, eccome se non sarei già entrato in una sala cinematografica romana a vedere l’ultimo e osannato film di Marco Bellocchio, quello che trae origine dal suicidio del suo fratello gemello Camillo. E del resto era esattamente dalle condizioni e dalle tensioni della sua affollata famiglia piacentina che Bellocchio aveva tratto l’ispirazione del suo gran debutto cinematografico, I pugni in tasca del 1967, un appuntamento tra i più memorabili della mia generazione, il suo come i film di poco successivi di Nanni Moretti. Tra anni Sessanta e Settanta Marco Bellocchio non lo avevo mai incontrato di persona. Avrebbe voluto partecipare a una riunione della redazione allargata della rivista catanese che dirigevo fin dal 1963, Giovane critica, ma all’ultimo momento non poté venire. Dei suoi fratelli ho conosciuto bene Piergiorgio, cofondatore con Grazia Cherchi dei Quaderni piacentini, uno che in fatto di saggistica colta ha pochi rivali in Italia; ho solo parlato al telefono divertendomi molto, con Alberto Bellocchio, un sindacalista che prendeva in giro i suoi due fratelli “estremisti” e che s’è poi ritirato a vita privata non senza travasare i suoi umori “riformisti” in un delizioso “racconto in versi” (La banda dei revisionisti, Bergamo, 2002) che fa da autobiografia della famiglia Bellocchio e dei suoi paraggi. Versi come questi: “Il circolo culturale in pochi anni / esaurì la sua voglia. Avevamo fretta / di fare: qui ci si divise. / Le questioni concrete / e dunque locali, il confronto con gli amministratori / come li passava il provinciale convento scelsero / alcuni. Gli altri fondarono i Quaderni Piacentini. / […] Loro, per noi, utopisti / troppo azzardosi, credevano d’esser marxisti, / ma era Saint Just il loro profeta. Noi sprecavamo / colpevolmente i nostri talenti – questo pensavano – / in un pragmatismo di retrobottega. Su loro / incombeva la storia maggiore”.

 

Figli di un professionista di gran risalto (morto anzitempo), la famiglia Bellocchio era tra le famiglie più luccicanti di Piacenza. La volta che io e la mia bionda fidanzatina dei miei vent’anni arrivammo su un treno di seconda classe a Piacenza, alla stazione c’erano ad aspettarci Piergiorgio e Grazia. Alla notte io e Natalia dormimmo (in due stanze separate) nella casa dei Bellocchio, sita nella piazza centrale della città. Al mattino, quando mi svegliai e andai a cercare la stanza dove dormiva Natalia percorsi un bel po’ di strada di quella casa immensa. Quando nel marzo 1962 erano comparsi in versione ciclostilata i primissimi due numeri della loro rivista, subito mi ero precipitato a contattarli oltre che a spingere tanti dei miei compagni di generazione catanese ad abbonarsi, ciò che fecero tutti entusiasticamente. Era una bellissima rivista e tale è rimasta per una decina d’anni. Piergiorgio e Grazia erano ciascuno di una decina d’anni più grandi di me, e dunque ben più maturi e culturalmente attrezzati di quanto lo fossi io, allora poco più che ventenne. A loro due si affiancò più tardi Goffredo Fofi (nato nel 1937), uno che culturalmente parlando suonava ovunque tu lo toccassi. Mentre usufruiva di una borsa di studio a Parigi debuttò sulla mia Giovane critica con un saggio meraviglioso sulla cultura francese tra le due guerre. Riuscii a pagarglielo qualcosa come 30 mila lire non ricordo più se del 1964 aut 1965. 

 

Roso com’ero dal complesso di inferiorità dello stare in una città dove a quel tempo i libri arrivavano con dieci/quindici giorni di ritardo rispetto a Roma e a Milano, invidiavo ai piacentini il loro ambiente naturale, che era poi quello derivato dai Quaderni rossi che Raniero Panzieri s’era inventato a Torino nel 1960. Invidiavo ai piacentini che loro in auto ci mettessero non più di quaranta minuti ad arrivare a via Legnano, dov’era la casa milanese di Franco Fortini, che era allora il mio e il loro guru intellettuale. Riuscii a far venire Fortini (e sua moglie Ruth) a Catania per una conferenza in un locale del centro che prendemmo in affitto perché l’Università s’era rifiutata di ospitare un personaggio ai loro occhi talmente rovente. In occasione di quella sua venuta a Catania Fortini mi autografò la copia feltrinelliana dei Dieci inverni, quel suo libro del 1957 che se non avevo imparato a memoria poco ci mancava. Potete ben immaginare quali siano stati i miei sentimenti quando nel 1987 Giovanni Minoli organizzò una serata televisiva dedicata al mio Compagni addio appena pubblicato da Mondadori, e si sentì rispondere da Fortini (che aveva invitato) che lui mai e poi mai si sarebbe seduto accanto a un “rinnegato” quale il sottoscritto.

 

Vi sto raccontando di qualcosa che ancor oggi è per me vitale, quegli incontri, quelle persone, quei libri compitati come in uno stato di estasi. Purtroppo è anche un panorama di rovine, da come quei rapporti si sono poi rotti e interrotti a causa della mia svolta “revisionista” dei primi Settanta, il gesto intellettuale della mia vita di cui sono più orgoglioso. Più e più volte nel rivolgermi da giornalista a personaggi che avevano fatto parte del giro dei Quaderni rossi e dei Quaderni piacentini mi sono sentito rispondere che loro non avevano alcuna intenzione di dialogare con “un giornalista borghese”. Quando nel 1972 organizzai un intero numero di Giovane critica sotto forma di un questionario rivolto a personaggi quali Antonio Giolitti oppure Giorgio Amendola, uno di loro mi rispose che avrebbe preferito “la pederastia passiva” anziché vedere il proprio nome accanto a tipacci di tal fatta. E così via, potrei continuare per pagine e pagine. Beninteso nulla di rilevante rispetto al suicidio di Camillo Bellocchio raccontato quarant’anni dopo da suo fratello nel film che andrò a vedere di corsa appena tornato a Roma.

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