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uffa!

Il silenzio vale più di cento parole, ma a volte urlare fa proprio bene

Giampiero Mughini

Di fronte agli ossessi dei social che ci tampinano con le loro foto e i loro pensierini ruttati in libertà, vale il decalogo del silenzio. Ma per fortuna ci sono occasioni in cui questo va violato: come la sera della finale, a cinquant'anni dall'ultima vittoria in Europa

Nel giorno della morte di Raffaella Carrà mi avevano invitato a una trasmissione televisiva che in serata le avrebbe dedicato uno spazio di cronaca e commento. Ho subito usato l’argomento che mi è consueto “O mi pagate quel determinato cachet o non vengo”, eppure la mia ritrosia aveva un’altra e più fonda spiegazione. E cioè che sentivo di non avere nulla da dire su questa celebratissima protagonista della televisione popolare dell’ultimo mezzo secolo o giù di lì. Non facevo parte del suo (immenso) pubblico naturale, non avevo mai avuto a che fare con lei personalmente, che diavolo avrei potuto dire che ne valesse la pena e che cento altri non avrebbero detto meglio di me o perché avevano conosciuto la Carrà o perché avevano triangolato professionalmente con lei? Pensavo che da parte mia il meglio in fatto di rispetto per la Carrà e per il suo strabocchevole destino professionale e massmediatico fosse il silenzio. Sì o no, il silenzio vale cento volte più che non lo schiamazzo incessante e il bombardamento di sciocchezze da cui tutti noi siamo assediati continuamente nell’epoca in cui non c’è imbecille che si astenga un solo istante dal battere ai tasti dei suoi social? 

Io non so fare niente se non quattro chiacchiere per orale o per iscritto, da cui ricavo di che mangiare due volte al giorno. Eppure tante volte la strada che preferisco nel rapportarmi ai miei simili è quella del silenzio. Mi capita di andare a cena con un amico o con un’amica e di stare ad ascoltarlo (ascoltarla) tutta la sera, e questo perché io non ho niente da dire o da raccontare e preferisco imparare qualcosa da chi ha una vita diversa dalla mia e per il quale i fatti e le parole dell’oggi hanno un valore, laddove io sono come obeso di memoria e solo di quella. E a non dire delle innumerevoli questioni su cui non apro bocca, e questo perché non ho sufficienti argomenti per essere pro o contro, su tutte la questione dell’utero in affitto cui pure aspirano uomini e donne che a tutti i costi vogliono essere padri e mamme. 

Sempre in tema di silenzio, un paio di settimane fa mi avevano invitato in un magnifico borgo medievale attiguo a Cagliari a fare una chiacchierata. A un certo punto ero arrivato a un argomento che mi commuove ogni volta che lo sfioro, alla condizione umana di quei 700 giovani piloti europei che per mesi e mesi montarono lassù nei cieli “a cercare la bella morte” pur di parare l’aggressione nazi all’Inghilterra, quella che nell’agosto-settembre 1940 era l’ultima oasi di civiltà europea non ancora violata dalla furia tedesca. I nomi di quei 700 piloti sono conservati in una cattedrale inglese. Non molti di loro sopravvissero. Nell’accennare al loro destino la commozione mi serrò alla gola tanto da non poter emettere alcun suono. Per un attimo rimasi in silenzio. Immediatamente qualcuno dal pubblico si lamentò ad alta voce che il microfono non funzionasse. Che io fossi rimasto in silenzio, lui non lo aveva minimamente messo nel conto. Subito replicai che talvolta il silenzio vale più di cento parole. 

Ah se questa regola la facessero loro gli ossessi dei social, quelli che mi mandano la foto del piatto di spaghetti che si apprestano ad addentare, oppure (tre o quattro volte di seguito) la copertina del libro che hanno appena pubblicato, o magari la foto di una cena in famiglia, foto da loro reputata ancor più suadente che la danza finale di Brigitte Bardot in “Et Dieu créa la femme”. Fanno del male a sé stessi, perché se stessero in silenzio io proverei per loro un amicale rispetto, e invece rompendomi i coglioni con i loro selfie mi inducono all’odio quanto di più tribale. Peggio ancora quelli che mi tempestano con le immagini della loro autobiografia in atto, i luoghi dove vanno, le loro gesta televisive, i panorami per come si vedono dalle loro finestre d’albergo, e mai una volta che mi facciano gli auguri di buon lavoro, tanto per dire la più miseranda delle comunicazioni. (Ove mi chiedeste i loro nomi, non li farei neppure sotto tortura). Possibile non si rendano conto che il sottoscritto (e milioni di esseri umani come me) ha altro da fare che non rimirare le loro faccette estatiche per il fatto di esistere, che non leggere dei pensierini in libertà ruttati alla men peggio, che non precipitarmi a gustare quella o quell’altra loro opera dell’ingegno. Quanto a me, se mando dei messaggi via sms lo faccio solo per congratularmi con qualcuno che ha scritto un articolo che ho apprezzato: l’ho fatto con Giulio Meotti e Michele Masneri per dire di due firme care ai lettori del Foglio, lo faccio spesso con Fabrizio Roncone del Corriere della Sera per dire di uno che usa il computer come fosse un violino. 

E comunque, fatta salva la supremazia del decalogo del silenzio, per fortuna nella vita di noi tutti ci sono occasioni in cui quel decalogo va violato. Erano passati oltre cinquant’anni dal giorno in cui con un tiro al volo di destro “Petruzzo” Anastasi ci aveva fatti campioni d’Europa nel football. Domenica sera, quando eravamo vicini alla mezzanotte e Donnarumma s’è steso alla sua sinistra a deviare il secondo rigore di seguito degli inglesi, il che ci faceva nuovamente campioni d’Europa, io mi sono alzato dalla poltrona in cui avevo sofferto calcio per oltre 120 minuti e volevo pronunziarlo a voce alta il nome di Donnarumma, solo che per l’emozione non mi usciva di bocca. In compenso la città tutt’attorno a casa mia ha cominciato a tuonare e ad esplodere di gioia, tanto che il mio cagnetto Clint (facile immaginare in onore di chi chiamato così) s’è rannicchiato in un angolo a nascondersi e proteggersi e c’è rimasto un bel po’. Sacrosanta gioia di tutti e tutte, quale solo quel più gran teatro al mondo che è lo sport sa accendere. Grazie “Mancho”, grazie Azzurri, grazie Donnarumma, grazie Leonardo Spinazzola, il gran nostro cursore sulla sinistra che s’era rotto il tallone d’Achille in una partita precedente.

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