Raffaella Carrà se n'è andata. Tutti a ballare il Tuca Tuca

Michele Masneri

"Con chi sono cresciuta? Con due donne, mia madre e mia nonna. Sono venuta male?". Vita e opere della suprema icona gay d'Italia

In quest’estate decisamente felliniana, tra botte di calore, finali di Europei, Papa sotto i ferri, calciatori metrosexual dal ginocchio incerto, alla fine di una gran epidemia che ci ha fiaccato fisico e morale, la dipartita dell’icona gay italica per eccellenza proprio mentre la suprema legge gay va verso l’affondamento pare un segnale, o un finale di film, magari di “Roma”.

 

E chissà se alle future veglie e  funerali immediatamente leggendari e ambitissimi i politici che già si stanno assatanando a postare foto e stories con hashtag #carrà (perché i politici pensano che mettendo l’hashtag migliori qualcosa, questo è il loro rapporto con la contemporaneità) poi si convertiranno improvvisamente a votare il Ddl Zan, proprio alle esequie: sarebbe un bel finale alla Frank Capra, in questo caso, con Parlamento tutto, e magari coretti di deputati e ministri a ballare “Tuca Tuca” o “A far l’amore comincia tu”, e pure Grillo e Conte riappacificati e allacciati, balletti di ministri tipo Village People a spargere non fiori ma fagioli.

 

Ma pare appunto improbabile. Non ci si è inginocchiati di buona lena, pur dotati di fisici atletici, figuriamoci le spaccate. E non è servito del resto neanche il pride silenzioso, il pride finalmente borghese come tanti invocavano da sempre, quelli anti “baracconata”; dovuto non a neo-sobrietà ma a leggi post Covid (forse mal scritte, peggio della Zan?) contro gli assembramenti. Dunque niente carri e poche musiche, pride borghese, e neanche questa volta appagato, però, l’omofobo collettivo incontentabile.

 

Ma su quei carri immancabile in passato come risuonava ogni suo pezzo, della Carrà, magari nella versione remix rilanciata e ri-immortalata dalla post-felliniana “Grande bellezza”. Lei però interrogata non sapeva spiegarsi di essere la suprema icona gay d’Italia, anche se gli ingredienti c’erano tutti: mancanza di papà, vita sofferta, ascesa e caduta, ostilità delle borghesie, e poi trionfo tra lustrini e lamé e soprattutto il segreto delle vere icone, non cambiare mai, dunque caschetto platinato immutabile, come il blazer di  Fran Lebowitz o il papillon di Pillon. Le baracconate però della Carrà piacevano molto, a mamme e papà magari anche destrissimi che non avrebbero mai benedetto figli in coppia monosesso come in recenti pubblicità di immobiliari avanzate.

 

In un’intervista con Massimo Gramellini dedicata al tema,  confondeva anche lei “coming out” con “outing”, ma tutto le veniva perdonato, lei italianissima in un paese del resto forse più pigro che omofobo, il paese cozze e vongole dove pure è impossibile trovar scritto giusto “sauté”. Ma lei era così, icona gay da barattolo di fagioli, icona gay pratica. “Gli italiani, gay e non gay, sono tutti scontenti. Su ogni proposta di cambiamento spira un vento contrario”, disse in quell’intervista, e disse anche che aveva pensato di prendere la cittadinanza spagnola, perché non aveva potuto adottare un figlio, da single, non volendosi mai sposare. "Oggi, quando si parla delle adozioni a coppie gay ma anche etero, faccio un pensiero: Ma io con chi sono cresciuta? Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Sono venuta male?".

 

Era venuta naturalmente benissimo, non peraltro lesbica né fluida, né gli italiani che pure seguivano in massa i suoi show ne ebbero la virilità compromessa. “I suoi look sono stati imitati da mille drag queen in tutto il mondo”, ha tuittato ieri Vladimir Luxuria. Tra i mille omaggi anche quello dell’icona gay di centrodestra, l’icona gay antigay (una particolarità italica) Lorella Cuccarini. Anche un’altra icona, il grande assassino dello Zan, il cattivo di questa fiaba, Matteo Renzi, si è buttato a tuittare: “la mia carriera è stata un continuo sorprendermi, e questo è il massimo”, ha scritto; citando la Carrà, ma parlando chiaramente di se stesso.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).