Terrazzo

Addio al designer Andrea Branzi, il più radicale tra i radicali fiorentini

Manuel Orazi

Studioso e teorico di una disciplina mutante, come la sua creatività. Tra Firenze e Milano è stato un artista instancabile fino alla fine, figura di riferimento nel design per molti

È mancato ieri a Milano Andrea Branzi, celebre designer ma soprattutto teorico di questa disciplina mutante. Era nato ottantaquattro anni or sono a Firenze, figlio di un politico cattolico e antifascista, Renato, e fratello del fotografo, artista e giornalista Piergiorgio, nonché padre di Lorenza e Orsola che è la Pina di Radio Dee Jay. Studente di Leonardo Savioli nei favolosi anni Sessanta, nel 1966 fonda Archizoom insieme con Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi, mentre nel 1968 si uniranno anche Lucia e Dario Bartolini. E’ stato il gruppo più radicale tra i radicali fiorentini, i più vicini alle tesi della Società dello spettacolo di Guy Debord. I primi progetti di design del gruppo volevano “rivalutare la stupidità, la volgarità come un linguaggio artistico proprio, libero dall’intelligenza e dall’eleganza del capitalismo” come il divano Safari del 1967, in finta pelle di leopardo o la Mies del 1970 in vacchetta – tutto il contrario cioè del raffinato design scandinavo da aeroporto. Le tavole di No Stop City pubblicate su “Casabella” nel 1970-71 criticavano la metropoli e la sua espansione illimitata con un linguaggio “non figurativo” rappresentandola come un infinito spazio interno.

L’intensificazione del lavoro di designer e lo scioglimento del gruppo hanno portato Branzi a Milano, con la moglie Nicoletta e le figlie, vivendo a lungo in via Solferino in una casa arredata insieme e popolata da molti animali domestici in forma di arazzo, scultura, disegno. Nel 1982 è con Morozzi tra i fondatori della Domus Academy che dirige per circa dieci anni, producendo progetti e soprattutto pubblicazioni spesso tradotte come La casa calda. Esperienze del Nuovo Design Italiano (1984), con la prefazione di Arata Isozaki perché era un grande amante della cultura giapponese anche a tavola. Dopo aver vinto un paio di compassi d’oro e collaborato con vari gruppi, fra cui Memphis e Alchimia, diretto il mensile Modo, è tornato in solitaria alla concezione di progetti radicali sempre rigorosamente privi di architettura come Agronica, una grande visione integrativa fra città e campagna subito acquisita dal Centre Pompidou negli anni ‘90.

Era l’ultimo ancora in vita a comparire nella storica copertina di Domus 869 del 2004 voluta dall’allora direttore Stefano Boeri per raccogliere gli alfieri del design italiano (gli altri erano Sottsass, Mari, Mendini, Magistretti). Instancabile fino alla fine aveva appena fatto una mostra a Firenze nella galleria di Simone Begani e un libretto Legni domestici/Marmi caldi dove l’amico e collega Lapo Binazzi elogia il suo amore per gli animali domestici perché “il precoce invecchiamento degli oggetti industriali, la loro obsolescenza, confermava il bisogno dell’anima di circondarsi di presenze animistiche, come nelle culture primitive”. Non a caso ancora la scorsa domenica su Libération, Emanuele Coccia lo celebrava come figura di riferimento per superare l’antropocene nelle città globalizzate perché “la presenza degli animali liberi nel tessuto urbano crea una riduzione dello stress metropolitano”. La sua mostra L’architettura appartiene al teatro, appena inaugurata, resterà aperta fino al 30 novembre presso la Galleria Antonia Jannone di Milano.

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