ANSA/ UFFICIO STAMPA 

Il foglio arte

Una generazione esagerata e quell'idea di “no stop city”

Carlo Antonelli

Firenze, i gruppi radicali di architettura degli anni Sessanta e l’imprevedibile grezzo. Andrea Branzi, un architetto, designer e straordinario teorico in piena attività

Andrea Branzi – classe 1938, architetto, designer e straordinario teorico – è uno dei pochi geni italiani viventi. Punto. La conversazione è intensa, brutale in modo dolce e totalmente reverente e ironica, com’è lui da sempre. Inizio io andando dritto al punto: come è accaduto che voi, andiamo proprio nel cuore delle cose, come diavolo è successo che voi siete riusciti a formare una sensibilità così in anticipo da individuare per primi al mondo come la città si stava trasformando? Sto parlando di No Stop City, com’è che avete imbroccato questa intuizione? Mi dirai, c’è gente che ha imbroccato intuizioni molto più grosse… “Beh, domanda interessante perché deriva dal fatto di aver lavorato a Firenze, che è una città di provincia, una grande città storica però dove, per esempio, non c’è assolutamente la modernità. Esagerata, infatti ho scritto un libro che si intitolava Una generazione esagerata. Non tanto incazzata politicamente ma dal punto di vista del cervello, che era sempre in uno stato di iperventilazione. Perché tutto è nato nel giro di 15-20 giorni, in una città come quella, improvvisamente sono nati gli Ziggurat, gli Ufo, i 999, tutti nomi che sono diventanti famosi, li cito brevemente, ma tutti i gruppi si sono concentrati in questa città.

Tutto di botto perché noi, noi intendo dire io, Massimo Morozzi, Paolo Deganello, Gilberto Corretti, questi quattro, decidemmo un giorno di riunirci insieme in un unico tema di progetto, quindi dove c’erano l’urbanistica, la tecnologia… I nostri vecchi professori  avevano oramai paura di noi, non perché fossimo aggressivi, ma perché avevamo creato un clima di autoalimentazione fortissima. In quattro studenti facemmo in un giorno, l’ultimo anno di università, quattro esami diversi in cui prendemmo tutti 110 e lode. Questo fatto fece notizia in tutta Italia, come se fosse una bomba e devo dire subito che questo tipo di creatività incontenibile fu intercettata  per esempio dai giapponesi. Vedemmo arrivare Arata Isozaki dopo 15 giorni”.
Gli chiedo se c’erano delle donne, tra loro. “Qualcuna negli Ufo era presente, ma no, erano sempre uomini. Ma sai a lungo la presenza femminile stava… sì, c’era la Lucia Bartolini, qualcuna molto intelligente c’era certo”. E intorno c’erano delle groupies? “No non eravamo i Beatles. E in ogni caso, per riprendere un classico dell’epoca tra i Beatles e i Rolling Stones, eravamo i Rolling Stones, tutta la vita”.

Più volte Branzi fa riferimento all’Italia su cui evidentemente sta riflettendo molto negli ultimi tempi, alla forma straordinaria dello stivale, alla sua impronta figurativa. Al cui centro naturalmente stava e sta Firenze. E arriviamo alla mostra che ha appena fatto a Pompei (Metropoli Latina, nell’Area archeologica di Pompei, fino al 30 novembre). “Pompei è come una distruzione che non diventa cenere, e che però invece conserva tutta una struttura figurativa molto singolare, una specie di dripping, come se fosse stata disegnata da Jackson Pollock…”.  Seppur successiva, la Pop Art è sempre stata un chiaro riferimento di Archizoom, del resto. E vengono in mente le affermazioni sulla creazione istantanea della notorietà, e la successiva citazione di Bowie, la fama in un giorno o in 15 minuti. “Sì, le cose succedono in 15 minuti sempre, sempre non c’è una lentissima meditazione. Le cose o succedono subito o non succedono più, come nel nostro caso”. 

In quel caso, Branzi vide il futuro che poi l’ha accompagnato per tutta la sua carriera, intuì una trasformazione della società e del mondo del lavoro che passava da materiale a immateriale, fatta dai flussi dell’informazione. “Inizio a non vedere più gli edifici e vedo sotto delle attività umane che sono simili a quelle di enzimi. Ma la No Stop City nasce dall’idea della fine del lavoro. Tanto è vero che sto preparando l’ultimo progetto per la Triennale, che dichiara che l’architettura appartiene al teatro, cioè non c’è la costruzione fisica funzionale. C’è la quinta, la presentazione di qualcosa di fermo”. Branzi lavora ancora con concentrazione massima. Ma io ho dimenticato un particolare e mi fermo su un anno. La famosa tesi di laurea è del 1966, l’anno prima viene inaugurata a Pistoia la celebre mostra Superarchitettura che raccoglie tutti i lavori dei gruppi radicali di cui abbiamo parlato. Tornando al 1966 c’era stata l’alluvione a Firenze, evento fondamentale della storia italiana. Tu partecipasti ai soccorsi? “Certo”. E ti sei beccato anche la guerra. In che modo? “Fu il periodo migliore…”. Assomiglia al lockdown, per chi gli è andata bene. “Ero piccolissimo. Eravamo tutti insieme in un piccolo appartamento a Firenze: mio padre, mia madre, le nonne, tutti i fratelli  e poi i cugini, tutti nascosti, noi eravamo ebrei. C’era gente nascosta negli armadi, c’era un mondo straordinario di rischio di pericolo che però poi alla fine generava in risate, in qualche modo era anche una situazione festosa anche se sembra curioso dirlo, specie nei pochi momenti in cui si apriva la finestra e si guardava in strada e si vedevano cose incredibili”. 

Senti una cosa, proviamo a fare un gioco, lasciamo la griglia degli enzimi da una parte, che è un modo con cui evidentemente il tuo cervello lavora, no? Ci sono delle sinapsi che formano in continuazione nella tua mente queste forme che sono delle forme di reti, di pure infrastrutture di flussi di numeri e merci (mi viene in mente anche il lavoro avanti di decenni per Eindhoven, su città e agricoltura di approvvigionamento diretto di chi ci vive, Agronica), diagrammi puri, quelli a cui il Centre Pompidou ha deciso di dedicare nel 2017 una sala permanente.

Contemporaneamente tu hai avuto a che fare con detriti, in continuazione. E questo è in qualche modo simile a quello che stai facendo adesso, ovvero il contrario di una visione diciamo scientifica ma che invece si occupa di una umanità profonda. Penso ancora a Pompei. E vedo, nei lavori che hai fatto, delle piccole strutture che sono infatti delle quinte di case, dove si riproducono delle piccole forme del vivere. “Ciò che mi interessa molto è tutto ciò che in qualche maniera è incompleto, cioè non è mai completamente aderente a ciò che dev’essere. Per esempio, il cibo cotto, mi piace adesso fare le figurazioni del cibo cotto, per me è interessante quando è deforme, incompleto”. 

E infatti si parlava prima di rovine. Non a caso Branzi scrive a un certo punto molto di architettura primitiva e si innamora di questo tipo di forme, parla di “casa calda”, “Case e cose calde, cioè che sono in evoluzione e si stanno cuocendo, non sono già pronte. Una casa non finita, non conosciuta”. A un certo punto pubblica pure degli “scritti presocratici”, si immerge nella cultura classica.” Ah sì, il pensiero presocratico, cioè che il grezzo che è imprevedibile”. 

Branzi ha fatto negli ultimi anni degli straordinari lavori sulla morte, è stato uno dei pochi ad affrontare il tema con una delicatezza straordinaria. Ti stai interessando alla fragilità, all’umiltà? “Ma io sono sempre stato molto umile, modesto. Io non sono molto interessato a me stesso”. Secondo te dove si va a finire, dillo proprio sinceramente. “Non si va a finire”. “E dove si va? “Non si va finire, si va a divertirsi ma non a finire”. Perché ci si va a divertire? “Perché la storia è divertente, e lo è stata da sempre”.

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