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Terrazzo

Ceo da incubo. Ormai manager e imprenditori si confessano sempre più spesso

Michele Masneri

Tra le tante cose di cui non avevamo bisogno arriva un’ondata di memoir di amministratori delegati-sòla e ceo-bidone che si svelano, si raccontano, non si tengono più dentro niente

Mentre il mondo forse sta per finire tra nuove guerre e ritorni di Covid, tra le tante cose di cui non avevamo bisogno arriva  un’ondata di memoir di amministratori delegati-sòla e ceo-bidone che si svelano, si raccontano, non si tengono più dentro niente. Non che i libri sui grandi manager siano una novità, ma un tempo erano manuali di gestione aziendale, adesso invece sono le confessioni intime o il racconto di tracolli poco “inspirational”. 

L’invasione non guarda in faccia a nessuno: ecco il librone “Elon Musk” di Walter Isaacson, molto atteso e immediatamente dimenticato, dove il biografo dei divi raccoglie la testimonianza di un suonato di enorme successo che talvolta entra in “demon mode”; quella “modalità demonio”  in cui Musk combina qualunque cosa. Come noi ordiniamo acquisti notturni su Amazon o vaschette di gelato su Glovo lui compra Twitter a mercati aperti, poi licenzia metà della gente, poi va a dormire alla catena di montaggio. Quando è nel demon mode Musk è meglio non stargli vicino, lo dicono tutti, parenti e amici e mogli ed ex mogli, e il mood demoniaco gli deriva forse dal tremendo papà Errol  Musk, “personalità che ancora oggi è fonte di tormento per Elon” scrive Isaacson. Uno svalvolato che lo bullizza fin dalla tenera infanzia, che costringe i cuginetti in visita a “lavare il water con lo spazzolino da denti” e lo fa andare in una specie di scuola paramilitare.  

 

Un’altra storia di suonati di successo è quella di Carlos Ghosn, per anni uomo simbolo dell’industria automobilistica, a capo di Renault e Nissan insieme. Nella docufiction a puntate su Neftlix (“In fuga. Il caso di Carlos Ghosn”) si vede l’avventura di questo uomo d’affari libano-brasiliano che a un certo punto diventa un super Marchionne globale. Salva la Nissan dal fallimento, diventa eroe nazionale in Giappone (con immediati fumetti e manga) salvo che poi in Giappone viene arrestato per frode. Lui dice che è una congiura, perché a un certo punto Renault e Nissan si devono fondere e i giapponesi non vogliono, secondo i giapponesi invece è lui che ha rubato dalle casse dell’azienda per alimentare il suo stile di vita fantasmagorico (jet  aziendale per il capodanno a Rio, un festone a Versailles in costume Luigi XVI). Alla fine la mossa (vera) che lo consegna alla leggenda: trovandosi ai domiciliari a Tokyo, riesce a evadere assoldando un ex berretto verde amico di famiglia che lo esfiltrerà in una cassa per strumenti musicali fuori dal paese, fin nel natìo (e senza estradizione) Libano, dove tuttora alligna, senza poter mettere il naso fuori perché nel frattempo le inchieste si son moltiplicate anche in Europa. 

 

Infine arriva anche “Strip Tees”, memoir di una tale Kate Flannery  sul fondatore di American Apparel, il presunto sporcaccione Dov Charney. Ve la ricordate l’insegna in helvetica della catena di abbigliamento AA? Per anni ci ha inondato con le sue immagini adolescenziali di calzette ammiccanti (erano gli anni Dieci del nuovo secolo, c’erano quelli che si chiamavano hipster, sembra passato un secolo). Charney era una specie di Barney Panofsky del leggings: ebreo canadese che si autodefiniva fanatico del sesso e delle t-shirt, aveva iniziato da studente proprio vendendo magliette ai concerti di Madonna, taroccate, e venendo per questo arrestato. Famoso anche perché sceglieva lui, per strada, commessi e commesse (se invece ci si  voleva candidare, consigliava di mandargli una Polaroid, niente inutili cv). Charney cavalcava i buoni sentimenti (produceva solo made in Usa, con paghe superiori a quelle sindacali, sostenendo che “Aa dev’essere per Los Angeles ciò che Levi’s è stata per San Francisco”, cioè una fabbrica dalla parte dei lavoratori - Levi’s fu la prima ad avere i condizionatori d’aria nelle sue fabbriche). Gli slogan erano Legalize LA (pro-immigrazione) e Legalize Gay: una comunicazione basata sul sexy-emaciato (con campagne pubblicitarie anche molto esplicite) e insieme sui diritti civili, leggendaria. Ma poi è cominciata l’odissea giudiziaria-priapistica: tre cause per molestie sessuali, la denuncia di una giornalista di essersi masturbato davanti a lei, e poi anche le accuse da parte di alcuni dipendenti di pratiche non così fair sul lavoro: se hai un tatuaggio, o non sei emaciato il giusto, sei fuori. Adesso Charney figura nella speciale classifica dei “4 più celebri processi contro gli amministratori delegati famosi”; le cause continuano, già è stato fatto un documentario (“Big Rad Wolf”), adesso pure il memoriale di una commessa  (sottotitolo: “A Memoir of Millennial Los Angeles”). Pare che Kanye West lo stia sondando come possibile ceo del suo marchio Yeezy (con la motivazione, scrive taluno, che “finalmente ha trovato qualcuno peggio di lui come amministratore delegato”).   

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).