Foto di Lee Soo hyun su Unsplash  

TERRAZZO

La saracinesca dell'arte. Da Milano all'India, lo stile vernacolare delle insegne commerciali 

Giulio Silvano

Rappresentazioni realistiche dei prodotti in vendita e dei servizi offerti, realizzate a mano. Che siano computer, panini, cartucce per stampanti. Aradhana Seth, in un libro uscito per Humboldt Books, “Sadak”, ha fotografato e messo insieme diverse di queste vetrine, spesso solo dettagli, divise per categorie

Anche a Milano, la domenica o di notte, si vedono su alcune saracinesche disegni colorati fatti con lo spray. Non graffiti, tag, insulti tra baby gang, ma rappresentazioni realistiche dei prodotti in vendita, dei servizi offerti. Computer, panini, cartucce per stampanti. Dalle parti di Porta Venezia su una saracinesca c’è disegnata una bella Valentine rossa di Sottsass. Ecco, in India (che forse a breve si chiamerà Bharat, costringendo a cambiare di nuovo i titoli di Agatha Christie, Dieci piccoli bharattiani) a lungo è stata prassi che le insegne, sui muri, sulle porte, sulle finestre, sugli architravi fossero dipinte a mano. Questo prima che, dagli anni Novanta, le nuove tecnologie e i materiali più accessibili non hanno iniziato a farle sostituire con plastiche incise e adesivoni, fotografie stock e neon fastidiosi e teloni stampati che  scoloriscono in pochi mesi. Alcune di queste insegne ci sono ancora, sono riuscite a salvarsi, altre sono state portate via, su legno e soprattutto su latta, finendo anche in qualche galleria di Soho e in qualche flea market di Brooklyn o in casa di Lisa Corti. Senza il passaggio warholiano o lichtensteiniano la rappresentazione dei prodotti in vendita diventa arte, come il virale affresco con la pizza di Pompei scoperto a giugno.

 

Forse è una nuova forma di esotismo, di colonialismo estetizzante, un po’ come la fandom per i poster cinematografici disegnati a mano libera in Ghana, prodotto dei video-club abusivi degli anni Ottanta con Schwarzenegger e Stallone (e che ora arrivano anche a 50 mila dollari alle aste), ma c’è qualcosa di molto attraente nell’imperfetta mano di un disegno pubblicitario home-made unico, nella naïveté quasi infantile del tratto e dell’uso dei colori primari. Aradhana Seth, in un libro uscito per Humboldt Books, “Sadak”, ha fotografato e messo insieme diverse di queste insegne, spesso solo dettagli, divise per categorie. Ci sono vecchi Nokia e tigri, ragazze che giocano a tennis e grammofoni, cascate e pentole a pressione, frullatori e ciabatte, chiavi e bufali, alberi e lampadine, ritratti e sedie di plastica. Aradhana Seth ha un grande occhio, e non è un caso che abbia lavorato con Wes Anderson, il più estetizzante e meticoloso regista, prima hipster ora mainstream, per il suo “Darjeeling limited” come art director. Questo libro è un archivio, dice Kajri Jain, che firma uno dei testi. “Le sue meravigliose immagini sono una compilation della diffusione postcoloniale dei materiali della modernità: dei modi in cui oggetti poco familiari, tecnologie e lifestyle, diventano sia desiderabili che accessibili tramite il tocco umano della pittura”. Come scrive Francesco Clemente in fondo al volume: “Emblemi della modernità, icone religiose tradizionali e oggetti di tutti i giorni appaiono tutti equalizzati, come segni di una lista infinita che ha l’obiettivo di descrivere niente di meno che tutto ciò che esiste”.

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