Il complesso edilizio 'De Rotterdam', progettato dall'architetto nell'omonima città olandese dove nacque nel 1944 (EPA/MARCO DE SWART)

terrazzo - LA PAROLA ALLA CITTà

Rem Koolhaas e il suo nuovo libro. Le riflessioni dell'unico archistar che è anche scrittore, giornalista e sceneggiatore

Manuel Orazi

Quella che segue è l’introduzione a Testi sulla (non più) città di Rem Koolhaas. Il saggio (Quodlibet, 240 pp., 18 euro), da pochi giorni in libreria, era finora inedito in Italia

Prima di Testi sulla (non più) città (Quodlibet 2021 euro 18), Rem Koolhaas ha meditato per molti anni di scrivere un libro dal titolo anodino, The Contemporary City, progetto poi accantonato perché in parte sovrastato dai crescenti impegni e in parte superato da altre pubblicazioni, prima fra tutte S,M,L,XL, l’ipertesto del 1995 che segna uno spartiacque nella parabola intellettuale dell’architetto e scrittore olandese. Con ogni probabilità alla base di S,M,L,XL c’era appunto The Contemporary City che, ampliandosi a dismisura fra il 1993 e il ‘95, si è poi diluito al suo interno. “Sto scrivendo un libro che analizza Atlanta, la struttura delle nuove città parigine e Singapore. Gli architetti, i sistemi politici, le culture l’America, l’Europa, l’Asia sono completamente diversi eppure approdano a configurazioni relativamente simili, fatto di cui tutti si lamentano. Vorrei comprendere il fenomeno e le ragioni di queste similitudini”.

 

Possiamo stabilire retroattivamente le premesse di quel libro mai pubblicato che aveva comunque nella città il suo specimen, lo stesso dell’intero pensiero koolhaasiano così come dichiarato fin dal nome del suo studio professionale, Office for Metropolitan Architecture, fondato insieme a Madelon Vriesendorp, Elia e Zoe Zenghelis nel 1975. Nella fattispecie, sia il saggio dedicato ad Atlanta sia Singapore Songlines (1995) sono dedicati alla scoperta di città di secondo piano, in grado tuttavia di mettere a nudo problemi globali e ossessioni personali dell’autore solo attraverso la loro osservazione ravvicinata, al pari della metropoli per eccellenza: con Delirious New York (1978), Koolhaas aveva già individuato nella congestione urbana un file rouge costante in tutta la sua futura opera. Se Atlanta, dominata dalla figura atipica dell’artista-architetto-developer John Portman, è una città senza storia caratterizzata dal “non c’è un centro, quindi nemmeno una periferia”, Singapore non è da meno: “sempre più aspetti delle artificiosità di Singapore hanno penetrato l’ecologia delle “nostre” città, dall’ubiquo inserimento di prati e zone piantate ad arbusti, al pulito splendente, all’ossessione del controllo in città come Parigi o Londra”. In seguito, portando alle estreme conseguenze – cioè radicalizzando – le intuizioni avute ad Atlanta e i concetti studiati a Singapore, nascerà il testo sulla Città generica, “una versione un po’ camuffata, astratta e generalizzata di Songlines”, un vero proprio affronto agli architetti occidentali perché la Città generica metteva in discussione il tabù del genius loci delle antiche e sacre città europee, “Parigi può diventare soltanto più parigina: è già sulla strada di diventare un’iper-Parigi, una caricatura lustra”.

 

Tuttavia Atlanta e Singapore hanno sempre bisogno di Parigi come termine di paragone e difatti la capitale francese è stata oggetto dei primi progetti cruciali di OMA, dai grandi concorsi mitterrandiani come il Parc de la Villette senza contare gli altri decisivi progetti di Euralille e della villa Lemoine a Floirac (già iscritto nella lista dei monuments historiques) o il sodalizio con intellettuali parigini come Hubert Damisch o Bruno Latour, tanto che Koolhaas poteva essere quasi considerato un architetto francese nel periodo fra gli anni Ottanta e Novanta, vale a dire nello stesso lasso di tempo in cui avveniva la gestazione di The Contemporary City. […] Atlanta, Parigi e Singapore, come abbiamo in parte già visto, ma anche Lilla, Tokyo, Berlino, New York, Mosca, Brasilia e Londra. Non si tratta di scritti teorici come nel precedente Junkspace che conteneva anche Bigness e La Città Generica, ma di un insieme di scritti d’occasione, attraversati da rimandi interni labirintici, posti a metà fra esperienza e riflessione. […]

 

Mancano dalla lista alcune città extraeuropee in rapida crescita solo perché gli scritti relativi sono rimasti a uno stadio troppo frammentario (Lagos, Dubai, le città cinesi), ma fra tutte è piuttosto eclatante l’assenza delle città italiane, forse perché quelle con caratteristiche più specifiche in assoluto e dunque irriducibili al paradigma della Città Generica o forse perché troppo legate al tema della storia verso il quale Koolhaas nutre un’indubbia idiosincrasia di stampo deleuziano, che spiega in parte la parallela idiosincrasia verso figure quali Aldo Rossi o Manfredo Tafuri, campioni dell’architettura engagée fondata sullo storicismo. […]

 

In ogni caso Koolhaas intende proseguire il suo percorso parallelo di architetto e scrittore, giocando con l’ambiguità che a volte ne consegue ma anche concedendosi una maggiore libertà di ricerca. L’antonimia si è peraltro incuneata anche fra il ruolo dell’architetto e quello dell’urbanista: “Penso che l’architettura sia un disperato tentativo di esercitare il controllo e l’urbanistica il fallimento di quel tentativo”. I due saggi finali di questa antologia lo dimostrano: sono infatti più l’abbozzo di ricerche in corso, sebbene agli antipodi fra loro, piuttosto che saggi definitivi su un argomento: l’antitesi fra la cosiddetta smart city e la campagna è infatti apparente. A ben vedere la campagna è sempre meno naturale e sempre più oggetto di applicazione di nuove tecnologie che vi attecchiscono subdolamente meglio che nella città stessa. In ogni caso “La (non più) città”, o meglio l’inafferrabile “sostanza urbana” contemporanea – come con lessico spinozista la chiama in Singapore Songlines – resta l’oggetto specifico di tutta l’opera di Koolhaas che è essa stessa in fieri e di là da concludersi.