L'archistar olandese Rem Koolhaas (Immagini prese da Facebook)

La noia di essere rilevanti. Incontro con Koolhaas

Michele Masneri

L’archistar olandese al Maxxi per presentare il suo libro. Sbuffa, sbrocca, si lamenta e racconta i progetti, il nuovo libro e Miuccia Prada 

L’archistar è notoriamente cattivissimo. Arriva col consueto cappotto di pelle nera, dolcevita grigio, scarpa affilata, tutto della sua amica Miuccia Prada, di cui ha disegnato le quinte esistenziali in una comune cavalcata ai vertici dell’immaginario globale. Sembra un killer di una fiction tedesca. Un nemico dell’ispettore Derrick. Arriva al Maxxi romano con codazzo per autografare e spiegare in una conferenza “Elements of architecture”, ennesimo librone con cui racconta la contemporaneità. Da ore si assiepano per lui file di società civili insospettate a Roma.

 

Rem Koolhaas va di fretta e dà indicazioni in tre lingue, inglese sussurrato e italiano basico e olandese soffiato e isterico per dire le cose più efferate al suo staff. “Dio mio che banalità questo concetto di preferenza”, dice subito, richiesto su qualche particolare edificio romano di suo gradimento, brutalizzando l’intervistatore; “direi anzi che il segreto della mia attività è stato di non scegliere the best o il bello, ma di combinare qualità che passano per il mediocre, il brutto, il normale”, sogghigna (forse è il micidialedutch humor o forse vuole solo vedere l’effetto che fa). Leggenda vuole che sia entrato un giorno in un ristorante chiedendo il piatto più tremendo del menu. “È un tipo di cosa che non commento”, dice arricciando il labbro e un berretto di cachemire, grigio, con le mani nodosissime. “Sì”, “no”, risponde alle domande. Soffia, sbuffa. Che noia essere così rilevanti.

 

Per la prima volta è in questo Maxxi per cui fu battuto dalla collega Zaha Hadid. “Oh, Roma mi interessa sempre molto, sulla carta è un posto così interessante, ma per ora non siamo riusciti a fare niente”, dice. C’è tutta una questione su Milano contro Roma, lo sa? “Oh, sì, per carità, è lo stesso che in Olanda. Io vivo ad Amsterdam e lavoro a Rotterdam, è sempre la stessa storia”: dove Milano è Rotterdam, e Amsterdam la capitale scalcinata? Sembrano paragoni difficili. Lui intanto si lamenta con un’assistente terrorizzata, le maestranze vengono cazziate, col solito clash romano globale (“dottò, ma se le mettiamo così le luci nun se vede gnente”).

 

La sua nuova passione adesso è la campagna. “Sto studiando da anni il concetto di countryside, faremo una mostra su questo nel 2020 al Guggenheim, il cinquanta per cento dell’umanità vive in città, quindi significa che il restante cinquanta vive in campagna”, dice, “la campagna è una terra incognita, spesso più moderna e complessa della città, oggi”. Gli piace da morire fare il bastian contrario, è chiaro. Nel ’78, quando Manhattan era un posto di criminalità e cacche per terra, lui pubblica il suo manifesto “Delirious New York”; nei Novanta del disimpegno fa un manuale, “The Harvard Design School Guide to Shopping”, un inno allo shopping come “ultima forma di attività pubblica”. Oggi che tutti si appassionano alle città, si butta sul rurale (gli piacerà tanto Roma coi suoi arbusti spontanei, allora).

 

E la Miuccia, con cui si favoleggia di una liaison (ma non si ha coraggio di chiedere, temendo una coltellata con qualche strumentino da sotto il trench)? “Venne a sorpresa da me a Rotterdam nel 1999 perché era stufa dei negozi suoi”, da allora lui le costruisce e disegna tutto, perfino le sfilate. “Non ero sicuro di saper progettare dei negozi, però avevo appena fatto la guida allo shopping, dunque eravamo preparati”. Una delle sue opere italiane più celebri è proprio la fondazione Prada a Milano. Appena completata con una torre candida che incarna perfettamente l’ideale koolhaasiano/pradesco di bruttezza sublime, “un edificio abbastanza radicale con volumi che diventano sempre più alti man mano che si sale”. Sembra una Pastamatic.

 

Per la Fondazione, dice, “abbiamo pensato a come rendere lo stesso effetto che i vestiti danno su una passerella di una sfilata, così abbiamo l’oro che ricopre il vecchio edificio, un’idea dell’ultimo momento; e poi la schiuma d’acciaio. La schiuma l’avevamo già sperimentata nel negozio di Los Angeles, ma qui abbiamo deciso di farla di ferro” - parla come un cuoco adesso, e la sua faccia si sovrappone a quella dello chef Heinz Beck che officia all’Hilton. (Koolhaas, appassionato nuotatore e feticista di piscine, quando è a Roma scende all’hotel su Monte Mario già classificato come ecomostro da urbanisti anche celebri).

Lui è stato giornalista, sceneggiatore, scrittore. Chissà cosa gli piace di più (Sbuffa. “Giornalista lo sono ancora, dunque evidentemente non sono stato in grado di fare una scelta”). Per ridestarlo bisogna fargli dire delle cattiverie in continuazione, si capisce. E allora: perché odia tanto la definizione di archistar? Ecco, gli occhietti da killer di Stieg Larsson si rianimano. “Really? Credo che lei sia perfettamente in grado di capire. L’architettura è una professione seria, ed è un lavoro di gruppo, e l’idea di ‘star’ proprio non c’entra niente. Fa parte di questa cultura della celebrità che ormai alligna ovunque. La parola archistar implica che l’architetto è uno stronzo interessato solo al proprio ego”. Di qui dunque l’astio contro la categoria? Tutti a dire, ah, questo edificio non ha alcuna relazione col contesto. “Ma io lo capisco benissimo l’odio contro di noi”, dice, entusiasta. “È tutta colpa dell’economia di mercato. Con la fine del comunismo gli architetti si sono messi a fare edifici praticamente solo privati, dunque hanno perso ogni connessione con il bene pubblico”.

 

Si sa che gli piace molto l’architettura comunista, infatti. “NON MI PIACE NIENTE, va bene?”, quasi sbrocca. “È diverso. Dico che nei paesi comunisti c’era un’attenzione per gli spazi pubblici che va riconosciuta”. E poi, scuotendo la testa: “ma il suo vocabolario è così banale! Lei è così parte del problema!”. Terrorizzati, si risponde attaccando, forse inopinatamente: Koolhaas, ma è più comunista lei o la sua amica Miuccia? Solo allora l’archistar riluttante si lascia andare a un sorriso quasi soddisfatto, pago. E dice, perfino: che bel layout, questo Foglio!

Di più su questi argomenti: