Frank Gehry goes to Hollywood

Michele Masneri

Novant’anni dell’archistar più archistar di tutte. Un libro ricostruisce la vita del progettista che sembra un romanzo di Philip Roth

Che vita, Frank Gehry. Nato Frank Goldberg a Toronto nel 1929, l’architetto oggi più globale fu costretto a seguire il padre cardiopatico in California, lavorando nella ferramenta di famiglia. Per mantenersi agli studi di architettura, guida un furgoncino e installa cucine a domicilio. Conosce entrambi i numi losangelini, Neutra e Schindler, con una predilezione per il secondo, più affine per carattere e propensione al bricolage. Dopodiché altre difficoltà: vince una borsa di studio al Mit di Boston, ma in urbanistica, di cui non gli frega niente, allora va a lavorare per l’inventore dei centri commerciali, Victor Gruen. La prima moglie gli fa cambiare addirittura cognome perché troppo ebraico. Con l’aiuto di uno psicanalista - è chiaro che la vita di Gehry è un romanzo di Philip Roth - a un certo punto capisce che deve fare quello che più gli piace, e allora cambia tutto.

 

Arrivato quasi ai novant’anni, oggi Gehry si gode la vita andando in barca a vela e inaugurando gli ultimi grandi progetti come il museo di Abu Dhabi o quello Louis Vuitton al Bois de Boulogne di Parigi. La sua storia però è stata piuttosto travagliata, specie quella professionale, come si capisce dalla biografia di Paul Goldberger appena tradotta in italiano, “Building Art. Vita e opere di Frank Gehry” (Safarà editore, euro 35). Il volume, opera dell’ex critico di architettura del New Yorker e del New York Times, è fin troppo monumentale, anche se l’edizione italiana ammicca alla sua breve fase decostruttivista usando un formato trapezoidale coi lati tutti sghembi.

 

A un certo punto Gehry cambia finalmente moglie, poi va a Santa Monica, dove compra una villetta di legno e ci costruisce intorno un manifesto di casa atelier come quelle dei suoi amici pittori Ed Moses o Chuck Arnoldi, ma più inventiva. E’ il primo manufatto gehriano a Los Angeles, oggi considerato monumento nazionale. All’epoca, però, difficoltà: arriva già il postmoderno e lui si ritrova ancora fuori moda o fuori sincrono. Finché con un guizzo dice: perché rifarsi agli stili del passato, perché tornare indietro solo fino al barocco o al rinascimento, quando si può regredire fino a una fase primordiale? Disegna così un ristorante (di pesce) in forma ittica a Kobe in Giappone, ispirandosi alla carpa per il gefilte fish che la nonna polacca teneva nella vasca da bagno a Toronto per ogni shabbat.

 

Nel 1989 vince il Pritzker Prize, e così arriva l’incarico decisivo, il Guggenheim di Bilbao che cambia le sorti della città basca fino a prima sfigatissima, e ridefinisce il concetto di archistar e di moto ondulato. Molto lo ha aiutato la comparsata nei Simpson, dove viene contattato da Marge per disegnare un museo a Springfield che diventa poi un carcere. Le sue forme coniche si moltiplicano per il globo – tranne che da noi ovviamente, i suoi progetti per Modena e Venezia osteggiati e dimenticati. Viene adorato, odiato, denunciato per parcelle pazze e infiltrazioni. Los Angeles, con una decina di suoi progetti, tra cui il Binoculars Building costruito intorno al cannocchialone di Oldenburg a Venice (oggi occupato da Google nella sua calata verso sud e la nuova “Silicon Beach”), è ormai una specie di parco a tema gehriano. Le celebrazioni per i 90 anni possono cominciare: sperando che gli incendi nel frattempo non brucino tutto.

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