1924-2024

Sandro Bolchi traduceva in immagini i grandi romanzi

Gino Cervi

Un secolo fa nasceva il regista che fu un maestro nella nobile arte della divulgazione televisiva e popolare di quella grande macchina narrativa che è la letteratura

Sandro Bolchi, che nasceva un secolo esatto fa – 18 gennaio 1924 –, per una dozzina d’anni, dal 1963 alla metà degli anni ’70, è stato il regista italiano con il record di spettatori. Vero che il suo non era il “grande schermo” del cinema, ma quello piccolo della televisione; e per di più era una televisione in regime di monopolio di stato. Prima con il teatro, radiofonico e televisivo, poi con una cospicua e serrata successione di quelli che, all’epoca, si chiamavano “sceneggiati tv”, tratti da grandi classici della letteratura, Bolchi nel 1967 all’apice della sua consolidata fama, fece l’impresa di impacchettare nel formato tv il Romanzo, quello che, nella tradizione nazionale letteraria, viene scritto con la R maiuscola. Lavorando alla sceneggiatura a quattro mani con un grande narratore del Novecento, come Riccardo Bacchelli, scompose in otto episodi, dal 1° gennaio al 19 febbraio 1967 i Promessi sposi di Alessandro Manzoni (lo potete vedere o rivedere qui). Fu un clamoroso successo popolare: allora non si sapeva neppure cosa fossero l’audience o lo sharing, e gli italiani non solo, come si è detto, potevano scegliere al massimo tra il Primo e il Secondo canale (inaugurato appena sei anni prima…), ma il dato censito dei telespettatori davanti al tubo catodico in quelle serate di inizio 1967 fu di 18 milioni, alcuni dicono addirittura 20. Praticamente il 40 per cento della popolazione nazionale. Chi il romanzo di Manzoni se l’era dimenticato o, peggio, l’aveva odiato sui banchi di scuola – a dire il vero non molti, data la ancora bassa scolarizzazione nazionale – se lo ritrovava in una rassicurante e domestica versione televisiva e finalmente si affezionava al volto “amichevole” di Renzo Tramaglino – Nino Castelnuovo, molto prima che saltasse le staccionate nel Carosello dell’Olio Cuore –, e di Lucia Mondella – Paola Pitagora, bravura e bellezza non convenzionali –, associava il carattere perturbante di personaggi come la Monaca di Monza e don Rodrigo al fascino seduttivo di attori come Lea Massari e Luigi Vannucchi e ritrovava, sempre nelle figure chiave del romanzo manzoniano, come don Abbondio e l’Innominato, il talento di grandi interpreti del teatro, come Tino Carraro e Salvo Randone.

Li “ritrovava” perché quel pubblico da un decennio era l’oggetto di uno dei più formidabili esperimenti di formazione culturale della nostra storia nazionale: la Rai, forse senza neppure essere pienamente consapevole dell’enorme potenzialità di quella sua funzione, e pur con tutti i difetti, le ingenuità e, in qualche caso, le malizie che, a distanza di tempo non si possono non imputarle, si era fatta carico del programma di informazione, educazione e intrattenimento dei cittadini della nuova Repubblica italiana. Se la scuola ancora faticava alle prese con laboriose e contrastate riforme istituzionali, la Rai aveva trovato modalità e velocità diverse per fare entrare il mondo nelle case degli italiani: un mondo di notizie, di divertimento ma anche di cultura. Attraverso i telegiornali, gli approfondimenti, i reportage e i documentari, le lezioni “mai troppo tardi” del maestro Manzi, la prosa teatrale e gli sceneggiati ispirati ai grandi romanzi, i quiz generalisti di Mike Bongiorno, le canzonette del Festival di Sanremo e Canzonissima, gli sketch comici e umoristici, gli italiani s’informavano, imparavano e si divertivano.

Sandro Bolchi è stato un protagonista di quella stagione. Nato per caso a Voghera – il padre era un ufficiale dell’esercito e si portava appresso la famiglia nei suoi spostamenti – quindi formatosi tra Trieste e Bologna, comincia fondando nel 1948, a ventiquattro anni, proprio nel capoluogo emiliano con altri amici appassionati, un ambizioso teatro stabile, La Soffitta, dove, come regista, mette in scena classici (Molière, Beaumarchais) e contemporanei (O’Neill, Camus). A metà anni Cinquanta si sente attratto dalla novità televisione (la Rai ha iniziato le sue trasmissioni ufficiali il 3 gennaio 1954) e inizia a collaborare con la sede di Milano per alcune prose radiofoniche. Ma è a Roma che si decidono le sorti e a Roma si trasferisce. Lui stesso ha messo in giro la verosimile “leggenda” di aver ottenuto nel 1959 il primo incarico di regia teatrale (Frana allo scalo Nord di Ugo Betti) scrivendo a matita, proditoriamente e di nascosto, il proprio nome sul grande palinsesto di programmazione che giaceva abbandonato sulla scrivania di un distratto dirigente Rai. Da quel momento Bolchi mette la firma, oltre che alle regie di classici del teatro per la tv – da Goldoni a Shakespeare, da Von Kleist a Giraudoux – ad alcune dei più importanti e popolari sceneggiati “letterari”. Prima dei Promessi Sposi, aveva portato sul grande schermo Il mulino del Po (1963), romanzo in tutti i sensi “fluviale” di Riccardo Bacchelli; l’anno successivo fu la volta de I miserabili di Victor Hugo, con un indimenticabile Jean Valjean interpretato da Gastone Moschin – uno dei suoi attori preferiti –, quindi (1968) Le mie prigioni di Silvio Pellico, la trilogia dostoevskijana de I fratelli Karamazov (1969), I demoni (1972) e Anna Karenina (1974), il Bel Ami di Maupassant (1979), ma anche riduzione di testi di narrativa moderna come La paga del sabato (1977) di Beppe Fenoglio. Nel 1988 diresse l’adattamento di La coscienza di Zeno di Italo Svevo, con la coraggiosa eppur felice scelta di fare interpretare a Johnny Dorelli il protagonista.

Ma quei prodotti di narrazione appartenevano ormai a un’altra epoca televisiva, per tecnica e stile. A rivederle oggi quelle offerte televisive vengono liquidate molto sbrigativamente come “indigeribili mattoni”, di estenuante lentezza ritmica, di sgranate e nebbiose definizioni fotografiche, dimenticandosi, o non sapendo, che, aldilà dei limiti tecnici, lentezza, silenzi, tagli e inquadrature erano la grammatica di uno stile costruito per poter distillare dalle fonti letterarie, con rispettosa interpretazione filologica, il loro senso più autentico. Sandro Bolchi, scomparso a Roma nel 2005, è stato a suo modo e ai suoi tempi un maestro nella nobile arte della divulgazione televisiva e popolare di quella grande macchina narrativa che è la letteratura.

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