“The Idol” infernale, la serie che tutti adorano odiare

Stefano Pistolini

Voleva essere la serie tv più sconvolgente di sempre, invece è stato bollato come il pozzo senza fondo del cattivo gusto. Storia di un progetto folle e perverso che ha messo in imbarazzo il jet set hollywoodiano

Benvenuti allo spettacolo televisivo che adesso tutti adorano odiare. Trattasi di serie molto firmata: diretta da Sam Levinson, il venerabile creatore di “Euphoria”, è “The Idol”, lanciata all’ultimo festival di Cannes tra la riprovazione collettiva. Ora “The Idol” è approdato sui nostri teleschermi, apparentemente nel generale disinteresse, fatto salvo per i commenti malevoli verso uno show accusato di sprofondare nella fossa delle Marianne del cattivo gusto e della cialtroneria hollywoodiana. Insomma. un disgraziato Titanic della serialità, sbeffeggiato per l’insulsaggine dei personaggi, la ridicolaggine della storia, i dialoghi memorabili solo per la deflagrante cafonaggine. A questo punto niente di meglio per incuriosirci, ricevendo però la sensazione d’aver assistito a tutto un altro film – intendiamoci, non un capolavoro, per l’assenza di misura, per l’andamento a singhiozzo, per l’ansimante susseguirsi tra la volontà di provocazione e la consapevolezza che tutto ciò non verrà perdonato, facendo a brandelli sia il progetto sia la reputazione dei suoi responsabili.

 

Eppure – garantito – “The Idol” è divertente se si abbandonano i preconcetti e ci si accomoda a guardarlo con rilassatezza, senza l’obbligo di sbandierare la paletta della riprovazione ogni volta che s’affaccia un capezzolo (tanto appartengono sempre a Lily-Rose Depp, vi ci abituerete), oppure ogni volta che viene pronunciata una battuta che pare prelevata da un romanzetto d’appendice anni Cinquanta (“Cosa ti fa pensare che io non sappia scopare?”, chiede Jocelyn a Tedros, dopo avergli fatto sentire “I’m a Freak”, il pezzo su cui sta lavorando. “Il modo in cui canti”, le risponde lui). Come avrete capito, anche se non avete visto i primi episodi della serie, al centro del dibattito c’è quel che resta della musica, o meglio della pop music da altissima classifica. E l’ambientazione è l’eternamente volgare e peccaminosa L.A., in una vicenda incentrata su una lei e un lui. 

 

“The Idol” è divertente se si abbandonano i preconcetti e ci si accomoda a guardarlo senza la paletta della riprovazione 

 
Lei, interpretata dalla figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis, è Jocelyn, ex baby star che è stata lungamente abusata dalla madre, infine morta un anno prima. Nonostante la brutalità di cui è stata vittima, la perdita ha provocato in Jocelyn/Joss una violenta crisi d’identità, facendola sentire insicura e infelice, a dispetto del lusso e della lussuria nella quale vive immersa, controllata a vista dal suo staff di cinici professionisti, una splendida galleria di lupi mannari magistralmente in equilibrio tra la coolness e il sanguinario pragmatismo con cui gestiscono la sua carriera. Comunque, con nuovo disco in uscita e un tour mondiale in vista, Jocelyn sente di marciare nella direzione sbagliata. Finché una foto compromettente, scattata da un amante occasionale, finisce online e fa esplodere la crisi: Joss si ostina a voler rinascere a nuova verginità artistica, ma non ha la più pallida idea di come fare, circondata da tutta l’ostilità possibile da parte del suo team, che teme l’implosione della gallina dalle uova d’oro (ecco: “L’implosione d’una gallina” è buona metafora del beat stilistico di questa serie). 

 

Il “lui” invece è Tedros, figura memorabile fin dal primo apparire, sbalorditiva già solo immaginandone il concepimento, chissà se ricalcato sul vero essere di chi l’interpreta, Abel Tesfaye, comunemente noto come la sofisticata popstar The Weeknd. Tedros è il gestore d’una discoteca dozzinale di Hollywood, dove Jocelyn va a distrarsi e dove lui si prende sul serio nemmeno fosse nella Rimini anni Ottanta, ad esempio concedendosi deprecabili monologhi al microfono del disc jockey. Tedros da subito è l’antitesi del sexy: un tracagnotto con una patetica pettinatura a coda di topo, che regolarmente le spara grosse e non si risparmia nemmeno uno dei possibili ammiccamenti sessuali. Dal momento che Jocelyn è la cantante più famosa del mondo e Lily-Rose ha una bellezza a cui non si resta indifferenti, la domanda successiva è: come si fa a inventare una storia su una relazione improbabile come quella tra questi due? Il bello sta qui. Un po’ perché, con la sua interpretazione melodrammatica e sopra le righe, la Depp alla fine è credibile nella parte della star nevrotica e stonata, che non crede più nelle sue capacità. Un po’ perché Tesfaye affronta il proprio sbalorditivo ruolo con l’approccio di un caterpillar, inconsapevole della sua inadeguatezza e convinto che il febbricitante carisma ormonale che pensa di sprigionare sia sufficiente a spianargli la strada della conquista. Di fatto Jocelyn, inconsciamente alla ricerca di una nuova relazione violenta, cede subito, cade nella sua rete e a quel punto lo spettacolo può davvero cominciare. Tedros, assume il controllo di Jocelyn senza incontrare opposizione e, mentre lui, nel pieno di un amplesso, la percuote con una spazzola per capelli, lei mugola: “Grazie per prenderti cura di me”.

  

Quello di Sam Levinson è uno sberleffo all’industria della quale lui continua essere un figlio illegittimo

  
Anche se non ne avete ancora fatta l’esperienza diretta, ormai avrete capito che, televisivamente parlando, a questo tavolo si fa il gioco duro, di quelli che ti stroncano la carriera. Ma cosa c’è sotto? Dato per assodato che Sam Levinson è uno dei più talentuosi showrunner della Hollywood d’oggi, in che direzione ha marciato la sua visione deviante e psichedelica nell’allestimento di quello che chiaramente vuole essere un progetto-limite, nonché uno sberleffo all’industria della quale lui continua essere un figlio illegittimo – e qui andrebbe aperto un capitolo sul suo rapporto col padre Barry, regista di successo e sulla sua adolescenza devastata dall’autodistruttività). Ma invece restiamo a “The Idol” e facciamo un po’ di vivisezione.

 
Le reference, innanzitutto. Appare chiaro che l’antesignano d’un immaginario del genere e il suo prototipo sia indubitabilmente Brett Ellis, in particolare quello dei cantici della dissoluzione losangelina “Less Than Zero” e “Imperial Bedrooms”. Di sicuro, nel buio d’una saletta privata, Levinson deve avere anche consumato con sguardo umido “The Canyons”, la sceneggiatura maledetta di Ellis, messa in scena in combutta con quel sabotatore di piani finanziari chiamato Paul Schrader. La Los Angeles di “The Idol” è proprio quella, lercia nipotina di “Chinatown”: uno scintillante niente, a cui si arriva per circostanze fortunate e nemmeno ci si ricorda come. Uno stolto vortice d’iper-lusso il cui unico problema è farlo durare, non farsi intimorire dall’alito di maledizione che soffia tra le palme di quelle strade silenziose, dove il tradimento e la disgrazia possono colpire in qualsiasi angolo oscuro. Poi ci va aggiunta una buona dose del “Fantasma dell’Opera”, il musical di Andrew Lloyd Webber sull’ingenua Christine che diventa una star sotto l’oscura ala protettrice dell’inquietante figura sovrannaturale che oggi verrebbe tranquillamente rubricato soltanto come “producer”. Qualche raffinato azzarda perfino paragoni con un altro regista dittatoriale, ma di estrazione culturale differente, come Nicolas Winding Refn, che ha partorito un recente film sul feticismo come “The Neon Demon” – ma qui le cose prenderebbero una pericolosa china cinephile. Invece a noi “The Idol” piace proprio per il suo versante meno chic e più pagliaccesco, per la satira acre e rabbiosa su quanto oggi faccia schifo l’industria dello spettacolo in ogni suo singolo meccanismo, attivatosi non appena, appunto, è divenuta un’industria – costruita sulle menzogne, l’avidità, gli imbrogli. Insomma un concept trasversale degli eccessi – si tratti di soldi, droghe, sesso, diabolici sprechi d’ogni tipo – moneta corrente nella mostruosa rappresentazione di un sistema che ruba a tutti per dare solo a ricchi che manco sanno cosa farne, perché non hanno gli strumenti del sapere, ma solo del piacere. 

 

L’ossessione psicosessuale, la perversione, la svergognata avidità sono parametri di questo teatrino della crudeltà

  
Tedros, dopo avere ipnotizzato sessualmente Jocelyn, si stabilisce nella sua villa, trascinandosi dietro un entourage di scappati di casa che avrebbero fatto la loro figura al fianco di Totò, nell’“Imperatore di Capri”. Lo stesso Tedros è un Dracula autodidatta, però privo dei sublimi tempi morti del vampiro, piuttosto in perenne erezione, predicando alla meno peggio la teoria secondo cui la buona arte nasce solo dal dolore. Un guru di risulta, coi bravi scommettitori che da subito puntano contro di lui, che invece si gonfia come un pavone e gigioneggia in alcune delle peggiori, ma delle più divertenti scene di sesso di tutti i tempi. Episodio dopo episodio si assiste, senza alcun coinvolgimento emotivo, alla violenta relazione tra Joss e Tedros, ma non si può fare a meno di godere del sadico punzecchiamento al perbenismo che ha eccitato la mente perversa di Sam Levinson, tracciando il solco di questa storia come di un’arzigogolata caricatura della misoginia. Vedendolo così, “The Idol” diventa caotico, sfacciato, irriverente nel mettere in mutande (letteralmente) il concetto di celebrity. L’ossessione psicosessuale, il tasso di perversione, la svergognata avidità sono parametri sempre eccitati di questo teatrino della crudeltà. E la popstar Jocelyn si rivela una patetica farsa vivente, assemblata in laboratorio e convinta di saper stuzzicare le fantasie erotiche dei suoi imberbi fans gorgheggiando versetti come “Mettiti in ginocchio e preparati a diventare la mia cagna”. Levinson, il creatore di questo universo, manifesta indubbie e irrisolte turbe sessuali, evidentemente intrecciate nella sua mente con deliri ribellistici che ricordano i deliranti manifesti pubblicati su Facebook da un qualsiasi stragista da shopping mall. Non a caso nella versione finale di “The Idol” aleggia di continuo una specie d’imbarazzo, come se davvero Levinson e i suoi l’avessero fatta grossa e sporca, alle spalle d’una produzione che s’è fidata di lui. Perché la vera storia della realizzazione di “The Idol” somiglia quanto meno a un rally di montagna.  

 
Levinson è sceso in campo solo allorché la serie era stata praticamente tutta girata, sotto la supervisione e con la regia di Amy Seimetz. Soltanto il soggetto era suo, ideato insieme a Tesfaye e al suo produttore Reza Fahim, gli stessi che a quel punto della lavorazione se ne escono che con tutte le iniezioni di femminismo e la visione apocalittica della setta di Tedros, si era tradita l’idea originale. “Volevo una satira dark della fama nel Ventunesimo secolo e nel mondo post Trump”, ha spiegato a Cannes Levinson. “E volevo raccontare una donna che usa il sesso per riconnettersi con se stessa. Ma, sotto la direzione della Seimetz, la storia era diventata quella d’un uomo che la sottomette e ne abusa, mentre lei non smette di adorarlo”. E Tesfaye rilancia: “Volevamo fosse un vero thriller attorno alla love story più squallida di tutta Hollywood”. Insomma, detto fatto: con la Hbo Levinson ha il coltello dalla parte del manico, perché è imminente la realizzazione della terza serie della macchina spara-nuovi-divi chiamata “Euphoria”. Perciò convince i capi a sorvolare sul budget già speso, ne ottiene un duplicato, liquida la Seimetz, ma tiene a bordo gli sceneggiatori Joe Epstein e Mary Laws, reduci da “Succession”. Poi riscrive pezzi della storia e trasforma il set in un Helzapoppin, da cui presto trasudano vergognosi resoconti di eccessi. In ogni caso mette al servizio del progetto il suo occhio febbrile e dà uno scrollone a Tesfaye/The Weeknd affinché la serie assuma una temperatura musicale, oltre che narrativa, perlomeno inconsueta. E, così facendo, edifica una volta la saga di prede e predatori a cui stiamo assistendo. E il sesso? Lo sparge sul tutto nemmeno fosse un condimento messicano, ma con lo stesso distacco verso il vero erotismo che si respirava a una sfilata di Gucci fino all’anno scorso e con tutto il sarcasmo possibile nel picconare il mito del “Saremo Famosi”. Per riuscirci, s’allontana sempre più dalla sceneggiatura originale, lavora senza una riscrittura affidabile, si concede improvvisazioni dell’ultimo momento, precipitosi cambi di rotta e tutto quel genere di cose che trasformano un set in una palude dell’isterismo. Peraltro un set stavolta ospitato, per risparmiare qualche spicciolo, nella vera mega-villa di Tesfaye – una visione utile a capire che, se oggi sei The Weeknd, possiedi una proprietà da 70 milioni di dollari nel cuore di Bel Air, una roba che un tempo si sarebbe attribuita come minimo a Clark Gable.

 

Hbo s’aspettava qualcosa in stile “Euphoria” e invece si è ritrovata tra le mani questa patata bollente

    
Finito il rifacimento, comunque, si è sciolta la compagnia, si è strombazzato che era pronta la serie più sconvolgente mai apparsa sul piccolo schermo e ciascuno se l’è data a gambe per la sua strada. Hbo s’aspettava qualcosa in stile “Euphoria” e invece si è ritrovata tra le mani questa patata bollente. E tutto il mondo dello spettacolo ha cominciato a sogghignare e a spalare fango, in particolare sull’ex ragazzo-prodigio Levinson, ormai inviso come il gobbo di Notre Dame. “The Idol” però sta là, piantato in mezzo a questo insulso 2023, col suo sesso non-eccitante, con Lily sempre nuda, con quel pirla di Tedros che si masturba dentro al negozio di Valentino di Rodeo Drive, col body horror, con l’intimacy coordinator incaricato di valutare la visibilità dei membri, con la pretesa, avanzata dai produttori, di una spina di birra gelata al centro del set, sennò non si gira. Che roba è? Un tango stonato? Un giudizio universale ambientato nella West Coast? Caviamocela dicendo che è un satirico, scoppiettante, antipatizzante pamphlet sul potere, quello ingiustificato, quello della sopraffazione, declinato in ogni abominevole maniera – tutto, purché sia potere. E che del resto, come insegna Tedros, anche se, poveretto, non ha studiato i classici, volere è potere.

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