Foto Ansa

FACCE DISPARI

Francesco Pannofino si racconta, tra Boris e il mito di Papillon

Francesco Palmieri

L'impegno in teatro, il ricordo di essere stato presente all'eccidio della scorta di Moro, la passione accantonata per il giornalismo e l'amore per Roma. L'interprete di Renè Ferretti a colloquio con il Foglio: "La mia voce? La tratto malissimo ma assomiglia a quella calda e bellissima di mio padre"

Nei quindici anni trascorsi fra la prima serie tv Boris del 2007 e la quarta del 2022 sono cambiate tante cose e tante sono uguali, ed è cambiato – restando in molte cose uguale – anche il disincantato regista René Ferretti: se non un alias, personaggio parecchio somigliante al suo interprete Francesco Pannofino, classe 1958, ligure di nascita e romano d’adozione. Uno sforzo necessario impone di non ripetergli domande cui ha risposto cento volte (ci sarà la serie Boris 5? qual è da doppiatore il personaggio con il quale s’identifica di più? perché tifa Lazio? vorrebbe recitare con Verdone?). Per dovere di cronaca bisogna invece ricordare che nel 2023 lui prosegue l’impegno in teatro con “Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek, di scena a Monza questo primo fine settimana di marzo, quindi a Santa Maria Capua Vetere, poi al Teatro Acacia di Napoli.

 

Cosa è cambiato fra il primo Boris e il suo ritorno l’anno scorso?

Il mondo in generale è rimasto più o meno uguale con tutte le sue cattiverie sparse qua e là. Nel mondo della fiction è invece mutato il modo di fruire: sono le piattaforme, non più le reti, i nostri datori di lavoro. Le piattaforme e l’algoritmo: entità impalpabili che non sai bene cosa siano però comandano.

 

È più inquietante o più rassicurante?

Né l’una né l’altra cosa. Il mio lavoro rimane lo stesso e nutro una disposizione favorevole per i progressi tecnologici. Non sono un passatista. Le nostalgie che provo non sono mai professionali ma private, come può essere il rimpianto per un bel posto nel quale sono stato.

 

Come è cambiato lei, o Ferretti, dal 2007 a oggi?

Se assomiglio a Ferretti è perché gli autori della serie sono eccellenti riproduttori della realtà e hanno cucito sul personaggio certe caratteristiche che vesto a pennello. Il cambiamento c’è stato, per esempio ora sbrocco di meno perché con gli anni ho scoperto che è una fatica in più.

 

L’età rende più buoni?

No, ma più saggi: tante cose che prima ti ferivano non ti toccano più. È una saggezza che tuttavia non mi vanto di elargire: è già molto impegnativo occuparmi di me e tutt’al più di mio figlio, che comunque a venticinque anni ormai fa la sua vita.

 

Non prova nostalgia di quando aveva la sua età?

Per nulla. Fu brutta l’epoca dei miei vent’anni, ricordo l’atmosfera invivibile dell’università. È inevitabile ripeterlo: mi trovai presente all’eccidio della scorta di Aldo Moro in via Fani il 16 marzo del ’78. Sentii le raffiche di mitra e dapprima mi sembrarono i colpi di un martello pneumatico, perché una curva m’impediva la visuale. Scappai. Quando tornai indietro vidi per terra i corpi dei poveri poliziotti e qualcuno fra i presenti riconobbe la macchina di Moro. Quelli, nella mia memoria, sono anni in bianco e nero. Persino il cielo lo rammento grigio.

 

Già voleva fare l’attore?

No, il giornalista. Scrissi i primi articoli di sport. Poi imboccai la strada della recitazione perché mi pagavano, mentre per gli articoli no.

 

Con la voce che si ritrova, una carriera da doppiatore era quasi naturale. Ha studiato molto?

Non sono mai stato un secchione. Neanche quando andavo a scuola passavo il pomeriggio sui libri: prendevo il motorino e giravo per Roma godendo la città. Una meravigliosa sensazione.

 

Di che tipo?

Di libertà. Che è la condizione cui dovremmo tendere tutti. Il mio film preferito è “Papillon”: la storia di un uomo che voleva vivere libero o non vivere. Anche adesso, quando posso, per riprovare quella sensazione me ne vado con lo scooter allo ‘Zodiaco’ in cima a Monte Mario. Soprattutto di notte: è bellissima Roma da lassù.

 

E la sua voce?

La tratto malissimo: urlo, fumo, faccio cinque mesi all’anno di teatro. C’è la tecnica, certo, c’è l’impegno. Ma penso che alla base sia la genetica: la voce di mio padre carabiniere, stupenda, calda, bellissima.

 

Dopo aver doppiato il personaggio di Rubeus Hagrid, custode di Hogwarts, ha letto in audiolibro tutta la serie di Harry Potter. Quanto le piace?

Confesso che quando me la proposero ero poco interessato perché non amo il fantasy. Conoscevo solo i film della saga, che ne banalizzano un po’ il valore narrativo a favore degli effetti speciali. Con la lettura invece mi sono innamorato, perché in Harry Potter c’è tutta la gamma dei sentimenti umani racchiusi in una storia fantastica. E ho capito le ragioni del suo successo mondiale.

 

Quale libro letto non per lavoro l’ha appassionata di più?

“L’isola di Arturo” di Elsa Morante, divorato durante una vacanza in Spagna. Pagina dopo pagina mi sembrava di trovarmi a Procida.

 

Poi ne ha pubblicato uno lei.

“Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane”, con Roberto Corradi e prefazione di Lorenzo Mieli. Mi sono raccontato. Chi lo ha letto dice che è gradevole e l’editore non ci ha rimesso soldi.

 

Non ha mai pensato a un Boris ambientato dietro le quinte della politica?

Potrebbe essere un’idea. Siccome i politici un po’ di lavoro a noi attori già lo rubano, potremmo compensare. È divertente vederli quando dichiarano a testa alta il contrario di ciò che hanno affermato un mese prima. Ci vuole tanto di quel talento che non so se sarei capace. Però chissà.

 

Di più su questi argomenti: