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Lasciate libera la rete. Indagine sulla net-neutrality

Andrea Minuz

L’Ue lancia una consultazione per coinvolgere i colossi del web nella spesa per le infrastrutture e mettere un pedaggio a internet, che alla fine pagherebbero anche gli utenti. Netflix, Amazon & Co. si mobilitano in nome della neutralità della rete. Uno scontro che investe le nostre vite digitali

L’estate prima di Dazn a Roma c’erano cantieri ovunque. Mancavano poche settimane al campionato e girando per la città, schivando le buche, si vedevano altri crateri e spuntavano fuori queste grandi balle di cavi in fibra ottica. Lo sapevano tutti ormai: la connessione veloce non bastava, senza fibra le partite e il promettente bordocampo con Diletta Leotta sarebbero stati a rischio. Bisognava darsi da fare. Intorno alle trincee scavate per il cablaggio, piene di umarell in estasi per i lavori in corso, si giocava il futuro della serie A. Il massimo della nuova tecnologia, cioè le partite in live-streaming, passava dai cari vecchi cantieri. Ecco una cosa che nell’epoca delle pay tv satellitari avevamo rimosso: all’apice della smaterializzazione, si torna a scavare. 

Con l’arrivo di Dazn, e le polemiche per quel campionato traballante, difettoso e in differita, tutti si sono resi conti di come nell’èra dello streaming la cooperazione tra chi si occupa di infrastrutture e chi offre contenuti sia decisiva (con Dazn poi andò meglio, ma al mio vicino arrivano ancora i gol due-tre secondi prima e mi tocca vedere le partite in cuffia). Dazn aveva bisogno di Tim come “partner strategico”, solo che Tim non era un partner strategico qualsiasi, visto che è anche sponsor ufficiale della serie A, proprietaria di TimVision con cui trasmette le partite on demand, e gestore di buona parte delle infrastrutture di rete nel territorio nazionale. Il caso Dazn rilanciava, grazie al calcio, il tema della banda larga nel nostro paese, ma sollevava anche un problema di “net-neutrality”, come faceva notare qualcuno. Solo che le partite appassionano, le partite che si bloccano prima di un rigore accendono gli animi, ma della net-neutrality non frega niente a nessuno. La cosa infatti morì lì. 

La net-neutrality non è un tema pop. Non se ne parla nei talk-show. Non è al centro dell’agenda nazionale come gli allevamenti di carne, la farina di grillo, la lotta ai rave illegali o Dante caposaldo della destra. Un dibattito sulla net-neutrality in Italia rischia anzi di essere archiviato tra i pericolosi forestierismi che minacciano la nostra lingua (e ci scusiamo subito con Rampelli, ma questo articolo dovrà qui e là cedere a qualche anglismo). Chiamiamola allora “neutralità della rete” o “internet aperto”. Intorno a questo principio si sta giocando in queste settimane in Europa una battaglia decisiva, molto più grande delle partite su Dazn, anche se la notizia è passata inosservata, ignorata per lo più da quasi tutti i grandi giornali. 

 

Mettere il canone a Netflix
A febbraio la Comunità Europea ha lanciato un giro di consultazioni pubbliche per rivedere l’assetto delle telecomunicazioni (“The future of the electronic communications sector and its infrastructure”). Il nodo cruciale della consultazione riguarda il “fair share”, cioè la possibilità di introdurre per legge una “equa” condivisione dei costi delle infrastrutture di rete da far pagare anche a chi offre i contenuti. L’espansione del Metaverso e le serie che vediamo ogni sera su Netflix dai e dai metterebbero a dura prova la capacità di tenuta della rete, quindi servono soldi per far sì che il sistema non collassi. Questo almeno lo spauracchio agitato a Bruxelles. “Fair share” suona bene, e qui forse si può dare ragione a Rampelli, perché se viriamo sull’italiano si capisce meglio: tasse. Tasse per usare la rete. Una specie di pedaggio che trasforma internet in un internet col canone per le Big Tech americane, Amazon, Meta, Google, Apple, e soprattutto il cattivissimo Netflix (che però non è una Big Tech, ci torneremo). Una nuova tassa oltre quelle che già pagano, si capisce.  L’idea di una “network fee” viene da lontano, è un sogno accarezzato da molti, ma in quest’ultima versione arriva su proposta del commissario francese Thierry Breton. Una carriera da manager, oggi a Bruxelles con delega al mercato interno e ai servizi, Breton è stato ministro dell’Economia nel governo De Villepin e direttore generale di France Télécom, e quest’ultima carica naturalmente non è casuale. La consultazione giunge infatti al culmine di vari anni di pressione da parte del mondo delle Telco, Deutsche Telekom, Orange, Telefonica, Tim, e gli altri grandi operatori che pretendono dalle compagnie Big Tech un contributo per la manutenzione e l’implementazione delle infrastrutture di rete. 

Ecco perché è stata subito ribattezzata “Telco Tax”, che suona invece come una catena di tacos e burrito. Un pedaggio da far pagare alle grandi compagnie americane per stare su internet che, per prima cosa, mette per l’appunto in crisi il fatidico principio della “net-neutrality”, quello evocato prima. La neutralità della rete è una specie di “primo emendamento” di internet che recita grossomodo così: gli operatori che gestiscono il traffico online devono garantire a tutti un libero accesso alla rete, senza distinzioni. Dal video scemo che rimbalza nelle nostre chat su WhatsApp all’ultima serie Netflix, dalla musica di Spotify ai regali comprati su Amazon, le partite su Dazn, i balletti su TikTok o le presentazioni su Instagram della squadra del Pd, ogni contenuto deve avere le stesse possibilità di arrivare sui nostri computer o smartphone. Non possono esserci corsie preferenziali, barriere, freni che metterebbero chi è economicamente più potente nelle condizioni di far viaggiare i suoi contenuti con maggiore velocità e qualità rispetto a chi non può. Un internet a forma di Frecciarossa per le Big Corporations e uno Trapani-Ragusa, quattordici ore, quarantasette fermate, per tutti gli altri, semplicemente non è più internet. E’ come se al momento di costruire l’A1 avessero immaginato, oltre al pedaggio per tutti, una corsia preferenziale dove far sfrecciare solo le Fiat di Agnelli.

La neutralità della rete sembrerebbe un principio scontato, legato anche alla struttura del web e alla natura della tecnologia digitale, ma non lo è. Lo era all’alba di internet, negli anni Novanta, quando la rete veniva usata per lo più da accademici e ricercatori che promuovevano la logica dell’open-access. Ma internet è cambiato velocemente. Oggi non è più un affascinante far west o un nuovo eldorado della fratellanza digitale, né soltanto un mercato globale, ma un ecosistema dove abitiamo più o meno tutti. La net-neutrality è diventata un tema delicato e complesso che investe le nostre vite digitali, l’innovazione, la competizione, la privacy, il free-speech, il digital divide tra chi ha accesso alla banda larga e chi no, i diritti delle aziende e quelli degli utenti. 

In America è al centro di un grande dibattito pubblico e una disputa politica che va avanti da oltre vent’anni: difesa da Obama che l’aveva messa al centro della sua campagna elettorale, cancellata da Trump, e ora in procinto di essere ripristinata e rafforzata dall’amministrazione Biden. La net-neutrality è diventata un tema popolare nel 2014, grazie al comico John Olivier che ne ha parlato parecchio nel suo show sulla Hbo (Olivier è famoso anche da noi, dopo che nel 2018 dedicò una puntata alle elezioni italiane, stroncando e perculando un po’ tutti). Qui in Europa invece sembra non interessare granché, anche perché nessun comico l’ha mai piazzata in prima serata su un talk. Non è facile far appassionare l’opinione pubblica a un tema del genere. Sia in italiano, sia in inglese, anche il nome non aiuta molto. La “neutralità” non desta grande attenzione. Non scalda. Non infiamma gli animi, proprio come la Svizzera. Il termine è stato introdotto all’alba degli anni duemila da Tim Wu, docente di Diritto alla Columbia e collaboratore del New York Times, uno studioso che ovviamente non si è mai posto il problema di usare una formula più sexy. Nel suo sketch, John Olivier proponeva di chiamarla “Preventing Cable Company Fuckery”, semplice, chiaro, efficace. Si capisce subito che ci riguarda tutti. Sullo sfondo di questo principio che ora scricchiola anche in Europa, prende forma la battaglia tra i grandi gruppi delle telecomunicazioni, ognuno con la sua nostalgia per i beati anni del monopolio, le nuove Big Tech e le entertainment company come Netflix.  

 

Il problema di internet è il traffico? 
La proposta del canone su internet si basa su una comprensibile necessità di fare cassa, ma su premesse del tutto errate. Ufficialmente la “tariffa di transito” nasce dall’esigenza di finanziare la mastodontica transizione digitale europea. Secondo la Commissione, servono circa 125 miliardi di euro l’anno. Ma le priorità sono tante: c’è il Green deal e la transizione ecologica, c’è la ripresa dell’economia dopo la pandemia, c’è il contenimento degli effetti della guerra in Ucraina. Dunque, dove trovare i soldi? Semplice: prendiamoli dai colossi del digitale! Sono americani, sono multinazionali, hanno grandi profitti, chi non sarebbe d’accordo? Per un francese, poi, quasi un automatismo.  Le Telco hanno costruito strade, ponti, acquedotti di cui è fatto internet, devono continuare a implementarle, ci sono i costi di manutenzione, espansione, eccetera. Su queste strade viaggiano i contenuti di Netflix, Amazon, Meta, Google e gli altri. Non è forse giusto paghino anche loro? Messa così potrebbe avere senso, ma non è così che va messa. 

La maggior parte di noi, va su internet proprio perché ci sono loro. Ci va cioè per utilizzare quelle applicazioni, quelle piattaforme, quei servizi e quei contenuti creati in questi anni, senza i quali internet sarebbe ben poca cosa. Tutti usiamo questi contenuti e servizi, comprese le grandi compagnie di telecomunicazioni. E se passeremo al 5G e alla fibra sarà per vedere ancora meglio Netflix o la premiere league su Amazon. Sono i contenuti che generano domanda per i servizi, secondo un circolo virtuoso che verrebbe meno con l’introduzione network fee. Non sono insomma gli Over-the-Top che usano internet, siamo noi. Non a caso i fornitori di servizi scelgono di integrare Netflix direttamente nei pacchetti che offrono ai consumatori, perché è anche o soprattutto grazie a Netflix che la loro offerta diventa più attrattiva. Ci sarà un motivo se il mantra di Bill Gates recita, “content is king”, e non “infrastructure is king”. In quel leggendario articolo pubblicato nel 1996 sul sito di Microsoft, Bill Gates scriveva che “i contenuti sono l’oggetto su cui mi aspetto che vengano sviluppati la maggior parte dei guadagni su internet”. La Comunità europea si aspetta invece di fare cassa dalla manutenzione delle infrastrutture. E’ la differenza tra chi punta sull’innovazione, e chi su dazi, tasse, lacci, ostacoli burocratici che sul momento generano entrate, ma poi frenano lo sviluppo di nuove idee e rendono internet un posto più povero. L’anno scorso, Thierry Breton scriveva su Twitter: “Una manciata di attori occupa da sola più del 50 per cento della banda passante mondiale. E’ giunto il momento di riorganizzare la giusta remunerazione delle reti”. “Riorganizzare” significa qui prendersi una fetta dei guadagni di Amazon, Netflix & Co. Ma quale sarebbe la giusta “remunerazione”? L’idea di calcolarla sul volume di traffico, che sembrerebbe l’ipotesi più probabile a Bruxelles, non sta in piedi. Non c’è alcun rapporto tra traffico generato in rete e guadagni. Lo streaming video occupa il 70 per cento del traffico internet, ma di fatto rappresenta solo il 2 per cento delle entrate dei servizi online, perché la fetta più grande se la prendono l’e-commerce, la pubblicità, i servizi cloud, che generano meno traffico ma più guadagni. Una “fee” calcolata sul traffico è quindi ingannevole e sbagliata anche nel metodo. Allo stesso modo non regge l’idea che la rete sia a rischio collasso se non si interviene al più presto. 

Non c’è dubbio che tra gli obiettivi europei di connettività del 2030 ci sia anche una rete infrastrutturale migliore, ma non è vero che l’aumento del traffico sta mettendo in crisi internet. L’idea che Netflix, Meta e gli altri stiano congestionando il traffico è uno dei principali argomenti su cui fa leva la network fee, ma tolto il fatto che un mercato in crescita andrebbe sempre incoraggiato, non tassato a ripetizione, ci sono qui vari contro-argomenti. Prima di tutto, i costi derivati dall’incremento del traffico di rete sono minimi rispetto agli investimenti in nuove infrastrutture, come confermato da tutti gli studi di settore. Il traffico internet è aumentato notevolmente nel tempo, ma i costi dei fornitori sono rimasti invariati e si prevede rimangano invariati nel tempo. La tecnologia migliora sempre e quando migliora, lo sappiamo, abbatte i costi. Ma la prova più limpida della tenuta di rete ce l’ha appena offerta la pandemia. Tutti eravamo chiusi in casa a guardare serie e film su Netflix, a esercitarci col lievito madre per caricare poi il video su Instagram, il traffico non era mai stato così fitto, ma la rete non è andata il tilt. Certo, in molti, tra cui Netflix, YouTube, Amazon, hanno raccolto l’appello europeo a ridurre la qualità del servizio (ma in quanti se ne sono accorti?), però di fatto il sistema ha tenuto. 

L’Organismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche (BEREC) non ha trovato sin qui prove evidenti che giustifichino questi allarmi e ha bocciato l’idea della network fee. Si tratta di un parere preliminare, ma che evidenzia anche come internet abbia dimostrato nel tempo la capacità ai “auto-adattarsi a condizioni mutevoli, come l’aumento del traffico e le trasformazioni dei modelli di domanda”. Un internet come la “invisibile hand” di Adam Smith, che premia chi rischia e chi innova, sulla base di interazioni il più possibile libere e aperte. E l’innovazione che in questi anni ha cambiato il mercato e la nostra digital experience, come direbbe Rampelli, è lo streaming on demand (SVOD per operatori di settore, analisti, studiosi, cioè “Subscription Video on Demand”). Un mercato aperto dall’ascesa di Netflix, a cui si sono poi accodati tutti gli altri. Il nome, del resto, era già un manifesto programmatico. “Abbiamo chiamato la compagnia Netflix e non DVD-by-mail”, diceva Red Hastings, “proprio perché sapevamo che alla fine avremmo distribuito i film direttamente via internet”. Vero o no, ha avuto ragione lui. Nell’èra dello streaming on demand abbiamo accesso a un prezzo bassissimo a contenuti video molto costosi (due ingressi al cinema al mese, e l’esempio non è casuale), con la libertà di poterli vedere come, dove e quando vogliamo. Dietro questi contenuti ci sono grandi investimenti che, nel caso di Netflix, la compagnia che investe di più in contenuti originali, sono molto più rischiosi che per Amazon o Disney. Amazon vende cose, è un grande magazzino e Disney, vabbè è Disney. Per entrambi lo streaming on demand è una vetrina che rafforza il brand. Un pezzo di un mercato molto più ampio e vario, in cui possono permettersi anche di andare in perdita perché fanno altro. Netflix no. L’avanzata delle piattaforme, che di sicuro ha cambiato le nostre vite in meglio, è stata possibile grazie all’abbattimento dei costi di distribuzione, cioè personale, macchine, trasporti che facevano circolare l’oggetto-film in giro per il mondo. Questa rivoluzione ha aperto una nuova èra. Fino al 2010 il cinema, la tv, internet erano considerati mondi diversi, ognuno con le proprie regole e logiche di mercato, ma il lancio di Netflix ha cambiato tutto. Lo streaming on demand e il modello di business DTC (Direct to Consumer) sono diventati il nuovo standard inseguito da tutti, Amazon Prime, Disney, HBO, Apple, Warner e le altre piattaforme a cascata che si spartiscono il mercato dell’entertainment, ognuna con la sua nicchia, dal wrestling all’arthouse cinema. La maggior parte di queste piattaforme è nata negli ultimi sei anni, solo dopo cioè che il successo della formula Netflix è apparso inequivocabile. Chi entra nel mercato SVOD oggi deve anzitutto costruire una strategia efficace per differenziarsi da Netflix, che è ormai sinonimo di streaming, come Kleenex per i fazzoletti, o Autogrill per le soste in autostrada. Una nuova tassa e la creazione di un internet a due velocità non ci porta tutti verso il 5G ma indietro di dieci anni, creando un forte disincentivo alle start-up del futuro. Ecco un buon motivo per farlo restare aperto. Perché come dice Tim Bernerse-Lee, l’uomo che ha portato internet nelle nostre case, e che da trent’anni difende la libertà e la neutralità della rete, “quando ho inventato il web non ho dovuto chiedere il permesso a nessuno”.

 

Le “conseguenze seconde”
Il tema, come si vede, non è più solo infrastrutturale, ma economico e culturale. Henry Hazlitt, l’economista preferito di Reagan, colui che rese popolare in America le idee della scuola austriaca di Von Mises e Hayek, era convinto che l’economia fosse in assoluto “la scienza più contaminata da errori”. Uno dei più ricorrenti è l’errore di trascurare le “conseguenze seconde”, cioè “la naturale tendenza a considerare solo gli effetti immediati di una determinata politica, trascurando quelli successivi, e quelli che riguardano non un gruppo specifico, ma anche il resto della società” (Hazlitt considerava assai sciatta la massima di Keynes, “sul lungo periodo siamo tutti morti”, che però come monito generale, o frase a effetto sulle pareti di una Feltrinelli funziona sempre). La “network-fee” sembra un caso da manuale di una serie di “conseguenze seconde” trascurate. Thierry Breton dice che per mettere il 5G e la fibra in tutta Europa servono i soldi delle Big Tech, che la tassa serve “per i nostri cittadini europei, per garantire loro connettività, innovazione e buone infrastrutture e per le nostre imprese, per fornire loro la migliore connessione possibile”.  Ma una tassazione sulle infrastrutture sarebbe dannosa proprio per i consumatori, che com’è ovvio andrebbero incontro a un aumento dei costi, sia per lo streaming che per i servizi cloud. Forse avrebbero il 5G e la fibra, ma Netflix e Amazon gli costerebbero il triplo rispetto a oggi (probabilmente molto di più). Dovrebbero infatti pagare due volte: per l’accesso a internet, come ora, e per il rincaro dell’abbonamento a Netflix o Amazon Prime derivato dalla fee. Netflix, in particolare, per non chiudere sarebbe costretta a far lievitare il suo canone mensile, ma soprattutto a smettere di investire in contenuti originali, che si sono rivelati fondamentali per la società ma estremamente vitali anche per le industrie audiovisive locali con cui Netflix entra in partnership. Come diceva Hazlitt, “è molto improbabile che i progetti ideati dai burocrati e difesi dagli amministratori del denaro pubblico possano accrescere la ricchezza e il benessere nella stessa misura della libera iniziativa dei contribuenti, ai quali invece è stato imposto di cedere allo Stato una parte dei propri guadagni”. Sul medio-lungo periodo, i soggetti coinvolti dall’introduzione di una network fee sarebbero insomma davvero tanti, e quelli che ci rimettono assai di più dei pochi che potrebbero guadagnarci. Come ha già dimostrato il caso americano, lo schieramento intorno alla difesa della net-neutrality può essere estremamente composito, ribadendo così la natura fluida e sovranazionale della rete, ma anche la diffidenza con cui viene visto un internet col pedaggio: ecco che in difesa di un internet aperto ci sono libertari e benecomunisti, frange di attivisti digitali, pezzi di società civile, associazioni di consumatori, le grandi Big Tech siliconvalliche e le media-entertainment company. Da noi potrebbe nascere una formidabile alleanza Codacons-Netflix, chissà.

La neutralità della rete è insomma cruciale per garantire un impianto di regole condivise da tutti, da chi è in gioco e da chi domani vorrà provare a innovare. Tassare ciò che ha reso possibile questa rivoluzione, suona come una vendetta del vecchio mondo contro il nuovo. Un mondo vecchio che per tutti i primi anni è rimasto guardare, stordito dalla disruption digitale, incapace di reagire di fronte alla velocità con cui tutto ciò che sin lì aveva funzionato saltava in aria, era messo in discussione o abbandonato per sempre. Il primo a tracollare fu il settore musicale. Poi a cascata il resto (e si ricordano anche i nostri direttori di giornale che negli anni Novanta storcevano il naso davanti agli investimenti digitali, “ma figuriamoci, questi contenuti web a che servono? Chi se li legge?” era un “giornalismo di serie B”, roba da nerd dell’informatica, non poteva durare). Ma il mondo vecchio ora prova a passare dall’altra parte. Anziché trasferire il traffico e basta, vuole una fetta di torta dei guadagni generati dalle piattaforme e dalle Big Tech, e prova a giocarsi la mozione Savastano, “mo ce ripigliamm’ tutt’chell che è ‘o nuost”. 

 

Netflix vs. ItsArt
Per attrarre il pubblico, le piattaforme devono offrire contenuti esclusivi e sempre nuovi. Nel mondo dello streaming non si vive di rendita, ma si sopravvive solo attraverso una costante diffusione di novità e contenuti originali che arricchiscono la library. I rischi sono altissimi, gli investimenti anche. Bisogna ingaggiare i migliori showrunner su piazza con contratti à la Cristiano Ronaldo, bisogna trovare i prodotti adatti ai mercati nazionali in un continuo “trial-and-error”, bisogna sviluppare nuove tecnologie sempre più sofisticate. Servono competenze molto diverse da quelle del mondo del cinema o della tv lineare. ItsArt, la Netflix italiana o la Netflix-Alitalia, sogno già accarezzato da Di Maio e divenuto realtà con Franceschini, era nata per sostenere il mondo delle performing arts e dello spettacolo italiano in generale, in un momento di grande difficoltà. Sappiamo com’è andata. Netflix, nata evidentemente per fare business, generare valore e profitti, è diventata in questi anni un punto di riferimento per il settore e checché ne dica Elio Germano sta aiutando la crescita di tutta la filiera. Attori, registi, sceneggiatori, case di produzione, tutti vogliono lavorare con Netflix. Del resto, non si tratta di beneficenza ma di obblighi di investimento. Oltre a pagare le tasse in Italia, Netflix deve investire sempre in Italia il venti per cento del fatturato (mentre le Big Tech no). Continuerebbe a produrre le “Sanpa” le “Suburra”, le “Baby”, le “Lidia Pöet” e i film che diventano un caso, come quello su Cucchi, con il peso di una nuova tassa? Può anche darsi che le produzioni italiane di Netflix non vi piacciano, figuriamoci, ma sono posti di lavoro e ossigeno per un’industria creativa che ha trovato nelle piattaforme una possibilità di rilancio e uno stimolo competitivo (secondo Elio Germano Netflix non paga abbastanza gli attori e non diffonde i dati delle visualizzazioni su cui calcolare i compensi, ma a volte è un bene non si sappiano, anche per tutelare l’ego degli attori). 

Come altri fornitori di contenuti, Netflix investe già molti soldi in infrastrutture, e anche qui non è che lo faccia per spirito ecumenico ma perché ha tutto l’interesse che i suoi prodotti siano distribuiti ad alta definizione, senza intoppi o imprevisti alla Dazn. Ognuno dei server Netflix piazzati in Italia contiene tutta la library della piattaforma, e ciò significa che premendo play sul vostro computer la serie arriva praticamente da dietro l’angolo di casa vostra. Le Telco da un lato e le Big Tech + Netflix dall’altro fanno insomma lavori diversi, ma hanno ruoli complementari. Dai loro rispettivi investimenti nelle infrastrutture e nei contenuti traggono beneficio entrambi. Possiamo continuare a usare questi servizi, oppure, chissà, possiamo riprovare con il modello ItsArt. A voi la scelta. 

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