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Carbon Tech

Quanta energia consuma un bitcoin? Le criptovalute alla prova della crisi

Pietro Minto

Il mining, il procedimento con cui si generano le monete digitali, ha una natura fortemente energivora. In Siberia, per esempio, il consumo energetico è quadruplicato nel corso del 2021 proprio per questo motivo. Eppure, nel mondo esistono alternative green

“Abbiamo bisogno di energia per cose più importanti dei Bitcoin, sinceramente”. Lo ha dichiarato pubblicamente lo scorso luglio il ministro dell’Energia svedese Khashayar Farmanbar, fissando le priorità energetiche del suo paese, anche in vista dell’inverno che verrà. Per questo, ha spiegato il ministro, la Svezia deve prepararsi a sacrificare alcuni settori in favore di altri, ritenuti più importanti, come l’acciaio. Il riferimento è alla natura fortemente energivora del mining, il complesso procedimento con cui si producono nuove criptovalute come Bitcoin ed Ether.

Il legame tra crypto ed energia è sempre stato molto stretto. Del resto, la sola Bitcoin consuma in un anno quanto l’intera Argentina, attirando da tempo critiche da parte degli ambientalisti, mentre una parte del settore cerca metodi alternativi per ridurre le emissioni della blockchain. Gli effetti di tutto questo sono visibili leggendo la lista dei principali paesi produttori di criptovalute, che include superpotenze, paesi ricchi di risorse e in cui l’energia costa poco, oppure paesi tradizionalmente freddi. 

La temperatura è infatti il cuore di questa questione, perché gran parte dell’energia assorbita dalle mining farm (enormi centri di calcolo in cui una serie di macchine risolve complessi calcoli matematici) viene usata proprio per raffreddare i sistemi informatici. Ogni farm di questo tipo mette insieme diverse schede video da computer, adibite a calcoli molto difficili, e che vanno alimentate. Ma soprattutto devono essere raffreddate, in modo che possano funzionare continuamente.

In Russia, per esempio, la maggior parte delle mining farm si trova in Siberia, nei pressi di Irkutsk, dove il consumo energetico è quadruplicato nel corso del 2021 a causa del mining, soprattutto quello di tipo abusivo. Molte persone in questa zona hanno cominciato a “minare” criptovalute nella speranza di arricchirsi, senza però pagare la tariffa energetica prevista per questo tipo di attività (più alta della norma), e spingendo il governo a minacciare un giro di vite per il crypto. Rimanendo ad alte latitudini, l’agenzia nazionale canadese che si occupa di energia ha una pagina web tutta dedicata al mining, in cui si spiega come “un clima relativamente freddo come quello del Québec aiuta a ridurre i costi di raffreddamento dei computer”.

In questi casi, le polemiche ambientali ed energetiche sono in qualche modo sferzate dal tempo atmosferico, anche se il cambiamento climatico e l’attuale crisi energetica si fanno sentire anche da queste parti. Un caso particolare è invece quello degli Stati Uniti, dove gli stati con la maggiore presenza di mining sono proprio al sud, dal Texas al Kentucky. Ad attirare i macchinari dei “minatori”, in questo caso, non è il freddo polare quanto una combinazione di risorse (e quindi elettricità a basso prezzo) e un certo laissez faire, che dà molta libertà agli imprenditori del settore. A trainare il mining a stelle e strisce è il Texas, il cui governatore repubblicano Greg Abbott, lo scorso gennaio, ha riunito ad Austin decine di imprenditori del mining, invitandoli a investire in loco con la promessa di costi energetici molto bassi. Il tutto, però, è avvenuto pochi mesi dopo la tempesta invernale Uri, che aveva messo in grave difficoltà la problematica rete elettrica texana, creando blackout che sono costati la vita a 246 persone. 

Il piano repubblicano prevedeva che questo settore avrebbe avuto bisogno di talmente tanta energia da spingere qualcuno – un imprenditore privato, ad esempio – a costruire nuove centrali elettriche per far fronte alla domanda, risolvendo il problema della rete statale. Così non è stato, almeno finora, e quest’estate le aziende di mining hanno dovuto fermarsi per permettere alla grid texana di reggere all’aumento della domanda nel pieno di un’ondata di caldo. Nel momento di maggiore crisi, Riot Blockchain, una società di mining, ha tagliato i propri consumi di 11,717 megawattora, rivendendo a caro prezzo alla rete statale l’elettricità che aveva precedentemente acquistato. Un affare da 9,5 milioni di dollari.

Tra i paesi che più hanno saputo approfittare della corsa all’oro del mining c’è stato il Kazakistan, ricco di risorse e per di più confinante con la Cina. Un dettaglio importante, quest’ultimo, perché nel 2021 Pechino ha ufficialmente vietato il mining e lo scambio di criptovalute (per ragioni di controllo politico, non di certo energetiche), causando un esodo di miner, che si sono trasferiti proprio in Kazakistan o in America. Non tutti, però. Alcuni sono rimasti in patria, a “minare” abusivamente. Lo sappiamo perché, nonostante la messa a bando ufficiale, la Cina rimane tra i principali produttori di criptovalute

Il processo, però, viene mascherato dalle farm utilizzando i Vpn (software con cui un utente può confondere o nascondere la geolocalizzazione dei  propri movimenti online) o una serie di server proxy. Tecnicismi a parte, la Cina ha continuato a minare, più o meno di nascosto, fino a quest’estate, quando si è registrato un forte calo. Ciò spiegherebbe anche la presenza dell’Irlanda nella classifica dei paesi più attivi nel settore: secondo alcuni, infatti, molti produttori rimasti in Cina farebbero in modo di far sembrare che la loro attività provenga da quel paese, usandolo come specchio virtuale per il loro mining. Secondo il New York Times, lo stop al mining voluto dalla Cina ha avuto anche altre conseguenze energetiche, spingendo le farm verso paesi dove si utilizzano ancora meno energie rinnovabili, come il Kazakistan. 

Un altro grande player del settore, l’Iran, ha imparato negli ultimi mesi a usare il guanto di ferro nella gestione energetica di questo settore. Lo scorso giugno, in vista di un forte aumento delle temperature, il governo di Teheran ha tolto la corrente a 118 centri dedicati al mining, indicando un metodo semplice, per quanto brutale, di gestire il settore in questi mesi delicati.

Ma c’è anche chi prova a fare a meno del carbone per coniare criptovalute. E’ il caso del principale produttore europeo, la Germania, trainata da Northern Data, gigante che si vanta da tempo di usare “quasi completamente energia rinnovabile”. Non è ancora chiaro se questo approccio green basterà a salvare il mining in un paese che è al centro della crisi energetica e che sarà costretto a molti sacrifici nei prossimi mesi. Anche se “pulita”, l’energia usata da Northern Data e dai miner tedeschi potrebbe fare comodo ad altri settori.

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