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Perché gli americani sognano tecnologia scandinava per il 5G

Eugenio Cau

Mentre Huawei otteneva la leadership nel settore, spinta e aiutata dal governo di Pechino, il governo di Washington non ha trovato il modo di generare campioni nazionali e ora vuole ripiegare su Ericsson e Nokia

Milano. Il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr, ha detto giovedì a una conferenza a Washington che l’America dovrebbe comprarsi Ericsson e Nokia, le due compagnie rispettivamente svedese e finlandese che si contendono con Huawei la leadership mondiale nel settore del 5G. Gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti, ha detto Barr ripreso dal Financial Times, dovrebbero “considerare attivamente” la possibilità “dell’acquisizione da parte americana di una quota di controllo” nelle due aziende nordiche, “o direttamente o mediante un consorzio di aziende private americane e alleate”. La dichiarazione, sulla quale né Nokia né Ericsson hanno voluto fare commenti (i titoli di entrambe le aziende sono aumentati lievemente dopo le parole di Barr), è il sintomo di una debolezza tecnologica strutturale degli Stati Uniti.

 

Da anni Washington cerca di limitare il predominio delle aziende cinesi nel settore del 5G, mettendo assieme una strategia fatta di dazi commerciali e di minacce ai paesi alleati. I dazi commerciali sono un’arma a doppio taglio, perché danneggiano tanto chi li subisce quanto chi li impone, e questo è valso anche per i divieti di utilizzo di fornitori americani che l’Amministrazione americana ha imposto a Huawei: sono state le stesse aziende americane a chiedere esenzioni a Washington perché temevano un rallentamento degli affari.

 

Le minacce ai paesi alleati, a cui l’Amministrazione Trump chiede in maniera pressante di escludere Huawei dai bandi per la costruzione delle infrastrutture 5G, non funzionano per una ragione semplice: le alternative a Huawei sono poche e non sempre disponibili. L’ultimo caso è stato quello del Regno Unito, che ha accettato la presenza di “fornitori ad alto rischio” come Huawei nelle parti più periferiche della sua rete. Giovedì Trump ha fatto una telefonata rabbiosissima al premier britannico Boris Johnson (i media americani hanno usato l’aggettivo “apoplettico”), e ieri il vicepresidente Mike Pence ha detto che la decisione di Londra su Huawei potrebbe minare gli accordi commerciali bilaterali. Ma lo stesso Barr l’ha riconosciuto: “Va bene dire ai nostri amici e alleati che non dovrebbero installare Huawei, ma allora quale infrastruttura dovrebbero installare?”. Sul mercato, le uniche alternative sono appunto Ericsson e Nokia, che sono entrambe aziende di eccellenza mondiale, che dal punto di vista tecnologico non hanno niente da invidiare a nessuno ma che faticano a competere con un gigante che ha l’intero peso (di disponibilità finanziaria e di influenza politica) dello stato cinese dietro di sé.

 

È questa la grande sconfitta americana: la terra che ha generato la Silicon Valley non è stata in grado, per gravi mancanze strategiche, di creare un campione delle telecomunicazioni. Sul 5G l’America è indietro, e questo ritardo è generato da alcune ragioni. La prima è la cattiva gestione delle risorse, in particolare le frequenze: quelle americane che sarebbero adatte al 5G sono state occupate per usi militari, e al 5G commerciale sono rimaste frequenze più lente e poco convenienti da sviluppare. Poi c’è una chiara inesperienza data dall’aver a che fare con un concorrente asimmetrico. Huawei ha ottenuto la leadership nel settore perché spinta e aiutata dal governo di Pechino, mentre il governo di Washington non ha trovato il modo di generare campioni nazionali in un regime di libero mercato, anzi: proprio perché l’investimento era rischioso, la gran parte dei giganti tecnologici americani ha snobbato le infrastrutture 5G. Da qui nasce anche un problema di soldi: secondo un report di Deloitte, tra il 2015 e il 2018 la Cina ha superato gli investimenti americani in 5G per circa 24 miliardi di dollari.

 

Così Washington si trova a inseguire, e a sognare tecnologia scandinava nella speranza che basti per colmare il divario.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.