Tim Cook alla conferenza mondiale degli sviluppatori Apple a San Josè. Foto LaPresse

Tim Cook vuole limitare l'uso dell'iPhone, per questo presenta mille nuove app

Eugenio Cau

Apple alimenta la pretesa di non far parte di quell’industria dell’attenzione che in questi mesi è stata vittima del techlash. Ma anche se è un po’ più in alto nella catena alimentare fa parte di quello stesso ecosistema

Roma. Apple tiene molto al perfetto equilibrio dei suoi utenti tra vita reale e vita digitale. Per questo lunedì, durante l’ultima edizione del Wwdc, la conferenza della casa di Cupertino dedicata ai nuovi software, uno degli annunci più importanti ha riguardato Screen Time, una nuova app che consente di limitare il tempo che trascorriamo davanti agli schermi. Anche gli schermi dell’iPhone: Apple è preoccupata per noi ed è pronta a ridurre il nostro utilizzo dei dispositivi con la mela pur di salvaguardare il nostro benessere. “Per qualcuno di noi, [guardare in continuazione lo smartphone] è diventata un’abitudine così radicata che spesso non ci accorgiamo di quanto siamo diventati distratti”, ha detto sul palco Craig Federighi, capo del software di Apple. Il ceo Tim Cook gli faceva eco con un’intervista uscita in parallelo sulla Cnn, in cui rivelava: anche io “uso troppo il telefono”. Insomma, Apple ci esorta a dare una regolata alle nostre vite, meno smartphone e più passeggiate in riva al mare, e il fatto che Apple sia il più grande produttore di smartphone del mondo rende l’esortazione ancora più nobile.

  

Screen Time è un’app che consente di tenere controllato l’uso dei device. Lo fa anzitutto mostrando a ciascun utente i dati di utilizzo del cellulare, così ciascuno può avere consapevolezza della gravità della sua dipendenza. Inoltre consente di attribuire un tempo massimo di utilizzo per ciascuna app: non più di dieci minuti al giorno per Instagram, un quarto d’ora per Twitter, mezz’ora per YouTube. Quando il tempo scade, Screen Time fa suonare un allarme.

   

E’ un bel modo per Apple di danzare intorno al techlash e rivendicare la sua diversità: al contrario delle altre aziende tecnologiche americane che commerciano in dati, Apple è l’unica ad avere un modello di business che non dipende dal controllare e dominare le abitudini dei suoi utenti, e questo è diventato uno dei punti centrali del marketing della casa di Cupertino.

  

Il resto del Wwdc, tuttavia, stona un po’ con il discorso altruista di Cook e Federighi. Oltre a Screen Time, all’evento di lunedì Apple ha presentato: nuove animoji (sarebbero: emoji che imitano le espressioni facciali degli utenti) con riconoscimento della lingua, per fare le linguacce davanti allo schermo; ulteriori animoji personalizzate con la faccia degli utenti (queste si chiamano memoji); un nuovo sistema della realtà aumentata per esperire la realtà attraverso gli schermi dei nostri device – più, ovviamente, i nuovi sistemi operativi MacOS e iOS. Durante il momento più surreale della presentazione, è stato portato sul palco un tavolo con sopra una casetta fatta di Lego. Anziché giocare con i Lego, tuttavia, i due presentatori hanno iniziato ad aggirarsi intorno alla casetta con un iPad davanti alla faccia, perché il gioco in realtà aumentata si poteva vedere solo attraverso lo schermo. Gioco bellissimo. Ma quella scena ha vanificato da sola tutte le promesse di strappare le pupille degli utenti dagli lcd.

  

Apple alimenta la pretesa di non far parte di quell’industria dell’attenzione che in questi mesi è stata vittima del techlash. Il fatto di non trafficare in dati è un ovvio vantaggio. Ma se il problema di Facebook e Google sta nella natura stessa del loro ecosistema, che rende gravi anche gli scandali laterali come quello che ha coinvolto Facebook la settimana scorsa (condivideva i dati degli utenti non soltanto con i ricercatori di Cambridge Analytica, ma anche con i produttori di smartphone, compresa Apple, per rendere più accessibili i propri servizi), Apple fa parte di quello stesso ecosistema. Semplicemente, è un po’ più in alto nella catena alimentare. Apple non è un servizio mangiadati, ma vende i device che servono a fruire i servizi mangiadati. Senza l’uno non esisterebbero gli altri.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.