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Il foglio sportivo

L'Inter non si è mai nascosta: si stravince anche così

Marco Gaetani

Dalla sconfitta nella finale di Champions è nato un carrarmato, il rito necessario per plasmare un gruppo. Marotta: “Abbiamo imparato ad essere ambiziosi”

Si dice spesso che nel calcio, prima di vincere, si debba perdere. Un passaggio formativo, un rito necessario a plasmare uomini e gruppi. Il cammino dell’Inter che in queste ore festeggia il suo ventesimo scudetto nasce da una stagione tribolata, piena di sconfitte amare in campionato e di una bruciante ma preziosa in finale di Champions League. Trovarsi faccia a faccia con il Manchester City al termine di un’annata in cui Inzaghi aveva danzato a lungo sul filo di un dirupo, rischiando l’esonero in almeno due occasioni, ha convinto tutti che questa squadra fosse destinata a grandi cose.  “All’inizio Simone ha pagato lo scotto – ha detto Beppe Marotta mercoledì al convegno de il Foglio – ma poi con intelligenza ha saputo gestire le pressioni. Contro il City abbiamo imparato che nello sport bisogna essere ambiziosi che non vuol dire essere arroganti o presuntuosi, ma avere consapevolezza dei propri mezzi. Ci è servito per creare un’auotoconvinzione”.

Al via della nuova stagione, l’Inter è ripartita più forte, forgiata dalle cicatrici e così convinta di poter recitare un ruolo da protagonista da urlarlo al mondo fin da subito. Mentre gli altri giocavano a nascondino, convinti che abbassare l’asticella mettendo le mani avanti fosse la strada giusta da percorrere, Simone Inzaghi e Beppe Marotta non si sono mai nascosti: anche per questo, l’Inter ha vinto. Già da luglio, il tecnico ha dichiarato che l’obiettivo era la seconda stella. Un processo che ha portato anche i giocatori a esserne convinti, a volersi mettere in gioco per andare a prendere quello scudetto che era sfumato due anni prima, nell’ormai lontanissimo derby di Giroud. Il dominio mentale dei nerazzurri è passato proprio dalle stracittadine: sull’onda di quelle vinte lo scorso anno in Champions League e in Supercoppa, si è presentata allo scontro di inizio campionato come un carrarmato, sgretolando le certezze che il nuovo Milan di Pioli aveva provato a mettere insieme all’alba della stagione. Quei cinque gol rifilati ai rossoneri sono rimasti un sottofondo nella mente dei vari Hernandez e Calabria per tutto l’anno e sono esplosi nell’ultimo scontro, un derby che soltanto nei minuti finali ha vissuto qualche attimo di equilibrio: è andato tutto secondo copione, come se non potesse esistere un’incognita per un finale già scritto.

È stato lo scudetto della consapevolezza e della programmazione. Scottata dal voltafaccia di Lukaku, che forse avrebbe portato a scelte diverse in attacco, come la conferma di Dzeko, la società non si è persa d’animo. Ha vinto un altro derby, stavolta di mercato ma decisivo come gli altri, vestendo di nerazzurro quel Thuram che già all’alba dell’era Inzaghi era stato un obiettivo concreto prima di un grave infortunio: il tecnico era convinto di poterlo trasformare in una punta centrale e i fatti gli hanno dato ragione, con il francese che ha risposto presente praticamente in tutti i big match. Le cessioni di Onana e Brozovic sono state tamponate in maniera meravigliosa: Sommer è stato uno dei segreti silenziosi della retroguardia dell’Inter, Calhanoglu si era già preso la cabina di regia nel corso della stagione precedente e allora è stato inserito Frattesi, che non è stato così abile da soffiare il posto all’eterno Mkhitaryan, tassello imprescindibile per Inzaghi, ma ha comunque saputo sconquassare le difese avversarie a partita in corso, trovando due gol fondamentali nel recupero contro Verona e Udinese. Ha funzionato tutto, anche la gestione dell’emergenza: sono saltati affari potenzialmente enormi, come quelli di Scamacca e Samardzic, ma Marotta e Ausilio non hanno mai perso la lucidità. Hanno dirottato il budget su un altro giocatore rivelatosi immediatamente irrinunciabile, Benjamin Pavard, che ha consegnato a Inzaghi l’omologo di Bastoni ma sul centro-destra, rendendo anche i difensori i primi attaccanti. E poi Bisseck, prezioso quando è stato chiamato in causa, e Carlos Augusto, l’uomo in grado di far rifiatare Dimarco ma anche Bastoni, subito pronto al salto di qualità dopo una sola stagione in Serie A con la maglia del Monza. Resta un’unica macchia, quella delle alternative in attacco: rimarranno le domande soprattutto in chiave Champions League, torneo affrontato sapendo di avere in testa l’obiettivo della seconda stella. Nella fase iniziale, Inzaghi ha attuato un turnover in attacco che è costato il primo posto nel girone e forse sarebbe andato tutto in maniera diversa: il calcio è fatto anche di se e di ma destinati a rimanere tali.

È stato, ovviamente, lo scudetto di Inzaghi, arrivato all’Inter tre anni fa nella convinzione comune che potesse essere soltanto il prolungamento del lavoro di Conte, quasi a voler ignorare tutto quello che il tecnico piacentino aveva fatto a Roma negli anni precedenti: il 3-5-2 era l’unico tratto in comune. Inzaghi ha lavorato con risorse ben diverse da quelle del suo predecessore, ha costruito giocatori in ruoli che loro stessi non pensavano di poter ricoprire e solo oggi può dire di aver fatto cambiare idea ai detrattori, a quelli che ancora gli rinfacciano lo scudetto perso nella prima stagione e che lo hanno definito a lungo buono soltanto per le coppe, competizioni brevi da dentro o fuori. Stavolta Inzaghi ha vinto la gara lunga, la maratona da 38 giornate, e l’ha fatto alzando le mani in anticipo, festeggiando sul lunghissimo rettilineo non vedendo più gli avversari alle sue spalle. Era solo da un po’, da quando, dopo quelle del Milan, aveva sgretolato pure le certezze della Juventus, battuta nello scontro diretto decisivo dopo settimane di provocazioni allegriane: troppo più forte, più concentrata, più squadra la formazione di Inzaghi per vacillare davanti ai mind games. L’Inter ha vinto quel big match con un autogol, ma costruito meravigliosamente: Barella per Pavard che si ritrova nel cuore dell’area piccola e prolunga per Thuram, Gatti costretto a chiudere alla disperata finendo per compiere un involontario pasticcio.

È tutta una questione di consapevolezza: ogni giocatore dell’Inter ha sempre saputo a menadito la propria parte, il copione da recitare. Questa squadra sempre uguale nel modulo ma cangiante nei movimenti in base a quello che l’avversario offre: così Thuram sa essere prima punta o esterno, raccordo o uomo letale in profondità. Lautaro sa segnare e cucire, Barella sa affondare e tamponare, Mkhitaryan sa aiutare la difesa e farsi trovare pronto al limite dell’area per imbeccare un compagno. L’Inter ha vinto perché non si è mai nascosta.

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