Éric Cantona - foto via Getty Images

Il caso

Peccato che Acerbi non si sia ricordato del peschereccio di Éric Cantona

Antonio Gurrado

Ormai il linguaggio del calcio è ridotto a una vacua ritualità che parla di "presupposti per fare bene", "quinto opposto" e "diagonale", ma senza dire nulla. Lo dimostra l'intervista del Corriere al difensore centrale dell'Inter

Dopo trent’anni di mistero, Éric Cantona ha spiegato il senso della sua più assurda conferenza stampa. Era il 1995 e aveva appena subito una lunga squalifica per avere sferrato un calcio volante, in stile kung-fu, a un tifoso del Crystal Palace che lo stava insultando, imprudentemente seduto troppo vicino al terreno di gioco. Il Manchester United, in comprensibile imbarazzo per la condotta della propria star dal colletto perennemente sollevato, convoca i giornalisti. Ci si aspetta un messaggio di scuse, un atto di contrizione, qualche frase di circostanza. Cantona, in cappotto, gilet e cravatta, bevendo teatralmente un bicchier d’acqua, dice: “Quando i gabbiani seguono il peschereccio, è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine”. Si alza e se ne va.

 

 

L’enunciato ittico (che in inglese lascia un’eco degna di Coleridge) stordisce gli astanti, i quali mormorano smarriti mentre qualche ingenuo alza la voce per domandare alla schiena di Cantona di tradurre en français. Non c’è però margine di interpretazione: per decenni l’arcano permane fino a che, in un impeto di nostalgia, Cantona non si produce nell’ermeneutica di testo e contesto. “Volevano che parlassi, quindi ho parlato”; la società aveva insistito affinché rilasciasse una dichiarazione e lui aveva obbedito, pescando una frase a caso dalla mente, convinto che qualsiasi altro intervento (“Sono pentito”, “Sono stato frainteso”, “Non ho detto n…”) sarebbe apparso altrettanto insensato.
 

Nell’enciclopedico e multicolore “Calciorama” (Hoepli) Gianni Sacco si dedica a un’appassionata esegesi di questo e altri calligrammi cantoniani, come “Mi piacciono le cose che si formano sul finire di un mondo quasi dimenticato”, oppure la citazione dal “Re Lear” lasciata detonare durante uno degli inutili premi Fifa – “Per gli dei siamo come le mosche per i bambini: ci uccidono per passare il tempo” – di fronte allo sguardo atterrito di Messi e Cristiano Ronaldo. A voler fare filosofia, possiamo dedurre che Cantona abbia voluto mostrarci plasticamente la funzione fatica del linguaggio calcistico: quel formulaico parlare al solo scopo di certificare il contatto fra mittente e destinatario (come quando diciamo “Pronto” dopo avere risposto al telefono), su cui prospera infinito il flusso di commenti alle partite
 

Ormai costretto a prodursi continuamente, il linguaggio del calcio è infatti ridotto a una vacua ritualità che parla di “presupposti per fare bene”, “quinto opposto” e “diagonale”, ma che pervade soprattutto l’aspetto etico. Al pari delle interviste dopopartita, espletano la funzione fatica del linguaggio tutti i messaggi edificanti che i calciatori recano in campo con magliette, striscioni con hashtag e patacche appiccicate qua e là; è un linguaggio che sembra parlare ma non dice nulla, e potrebbe essere espresso da un qualsiasi individuo disincarnato o venire generato dall’intelligenza artificiale (forse lo è già).
 

Prendiamo il caso che ha portato l’Italia sull’orlo della guerra civile fra interisti e napoletani: la disamina giuridico-etnica su cosa potrebbe aver detto Acerbi a Juan Jesus, forse rinfacciandogli che lo trovava troppo allegro, forse chiedendogli lumi sul Cap di Novegro. Al Corriere Acerbi ha dichiarato “sono triste e dispiaciuto”, “abbiamo perso tutti”, “fiducia nella giustizia”, “alimentare un polverone”, “il razzismo è una cosa seria”, “se uno sbaglia è giusto che paghi”, “costanza e professionalità”, “gogne mediatiche”, “bisogna puntare gli obiettivi giusti”, “a testa alta”, “metto un punto alla vicenda”. Tutte frasi ritrite che, se solo Cantona le avesse pronunciate nella famosa conferenza stampa, avrebbero contribuito a non farlo passare alla storia. Immaginate se invece, alla prima domanda del giornalista, Acerbi avesse risposto: “Qui si fa valere l’elemento dell’abnegazione e della disposizione a morire, che fa superare molte cose, ed è un’ultima parola contro la quale c’è ben poco da obiettare”. Allora sì che ci sarebbero stati i presupposti per fare bene.

 

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