Igor Tudor - foto via Getty Images

Il Foglio sportivo

Igor Tudor non si è mai sentito un piano B

Marco Gaetani

L’allenatore croato ha scelto di ripartire dalla orfana Lazio. Così vuole (ri)costruire la squadra e se stesso

Dietro la scelta di Igor Tudor di fare un passo indietro e chiudere con l’Olympique Marsiglia dopo una sola stagione, almeno stando ai beninformati francesi, c’era la sagoma di una Vecchia Signora. Si erano lasciati, in maniera abbastanza polemica, qualche anno prima, dopo che aveva fatto da assistente ad Andrea Pirlo: “Una stagione dura, ma alla fine siamo riusciti a qualificarci per la Champions e abbiamo vinto la Coppa Italia. Eppure ci hanno cacciato: mi spiace, non lo trovo giusto”. Erano seguite anche polemiche nei confronti di Pirlo, reo di averlo messo sullo stesso piano di Roberto Baronio all’interno dello staff. Infine, una rivendicazione: “Ho deciso che non sarò mai più l’assistente di nessuno: ho accettato solo perché era la Juve”. Già, la Juve, la Vecchia Signora che, stando alle voci di un’estate fa, aveva pensato di richiamarlo, interrompendo anzitempo il rapporto con Massimiliano Allegri. Ma le indiscrezioni estive sono spesso inconsistenti, un venticello che passa nelle ore più calde ma che dà sollievo solo per qualche istante: gradevole, necessario, inconsistente. E così “lo jugoslavo alto”, come da definizione che ne aveva dato Gianni Agnelli nell’estate del 1998 a Villar Perosa quando Tudor era arrivato a Torino con la freschezza dei suoi vent’anni e un futuro ancora tutto da scrivere, è rimasto fermo, aspettando il giro di giostra successivo.

 

 

Sembrava dovesse portarlo a Napoli, in quel momento di bufera post Garcia, ma così come non vuole essere più un assistente, Tudor non ha nemmeno intenzione di vedersi appiccicata addosso l’etichetta di traghettatore.  In mancanza di un’offerta di respiro più ampio, il croato ha preferito declinare, come fosse una partita di Affari Tuoi: ringrazio per l’offerta, rifiuto e vado avanti. I fili invisibili che legano le mille storie del mercato delle panchine lo hanno dunque portato a Roma: secondo i beninformati, stavolta in salsa biancoceleste laziale e non marsigliese, ci sarebbe arrivato perché Edy Reja avrebbe detto no a Claudio Lotito a quello che sarebbe stato il suo terzo approdo in corsa alla corte del patron dopo quelli del 2010 e del 2014.
 

Proprio di Reja, all’inizio della sua carriera, Tudor è stato assistente ai tempi dell’Hajduk Spalato, occupandosi dei movimenti del reparto difensivo: un’esperienza che era terminata in concomitanza con la decisione dell’allenatore italiano di rispondere positivamente alla chiamata di Lotito
 

Stavolta, invece, Lotito ha chiamato lui, per rimettere insieme i pezzi di una crisi esplosa in maniera deflagrante, un mesto Lazio-Udinese a fare da detonatore dopo mesi di mediocrità, intervallati qua e là da acuti in Champions League che facevano a cazzotti con la miseria della proposta di gioco vista in campionato. Un disastro in cui si sono rivelati tutti colpevoli, dalla società alla guida tecnica passando per i calciatori. E anche stavolta Tudor ha preteso di non essere il piano B: nessuna voglia di traghettare, bensì di costruire qualcosa di duraturo, di sentirsi saldo al timone nonostante le onde alte e minacciose.
Chissà se al momento della firma aveva già in testa lo scherzo del destino che il calendario stava per proporgli.
 

La quarta avventura italiana di Igor Tudor da allenatore (due subentri a Udine, uno a Verona) parte infatti con due sfide cruciali alla Juventus, a quella Vecchia Signora che lo accolse nel 1998 strappandolo con un blitz di mercato alle richieste di mezza Europa (Fiorentina, Real Madrid e Bayern Monaco, a rileggere le cronache dell’epoca) e per la quale, da giocatore, aveva fatto tutto, dal difensore centrale al terzino fino al mediano, divertendosi qua e là da centravanti aggiunto nei momenti in cui bisognava sfruttare la sua stazza in finali convulsi. La stessa che lo avrebbe sedotto e abbandonato un’estate fa, inducendolo a lasciare Marsiglia: ma l’estate somiglia a un gioco, è stupenda ma dura poco. E allora eccole, messe in fila nell’arco di quattro giorni, Lazio-Juventus di campionato, per cercare di rimanere aggrappati a un treno europeo che il ranking annuale potrebbe far diventare più lungo del previsto, e Juventus-Lazio di Coppa Italia, semifinale di andata, per andare a caccia di un trofeo che darebbe un senso diverso all’annata biancoceleste.
 

C’è enorme curiosità attorno al lavoro di Tudor, che si regge su principi tattici diametralmente opposti rispetto a quelli di Sarri. Per questa ragione, soprattutto nel breve periodo, il suo impatto potrebbe avere effetti molto positivi o molto negativi, senza mezze misure: difficile che la Lazio sia destinata a vivacchiare da qui a fine stagione, più probabile vederla vivere di eccessi, in un senso o in un altro. Tudor ama l’uomo contro uomo, difensori aggressivi in grado di seguire l’avversario anche oltre la linea di metà campo se necessario: si scontrerà con un organico tendente al compassato, che da due anni e mezzo segue i principi difensivi di una zona tradizionale.
 

Scegliendo il croato, Lotito ha lanciato un messaggio ai calciatori, gli stessi che aveva pungolato, volendo usare un eufemismo, con un’intervista al Tg1 che rappresenta un’anomalia in termini di comunicazione calcistica: nessuna autogestione, in panchina c’è l’allenatore del futuro. Se Tudor vorrà sfumare almeno inizialmente le sue convinzioni nel tentativo di una transizione più dolce ce lo dirà il campo, ma non ha troppo tempo da perdere perché all’orizzonte, dopo la doppia sfida con l’amata Juventus, c’è il derby contro la lanciatissima Roma di Daniele De Rossi, certamente rigenerata dal cambio in panchina. Prima, però, la Juve. Uno scherzo del destino

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