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Una rivoluzione durata nove mesi. I calcoli sballatissimi del calcio saudita

Giovanni Battistuzzi

Pochi spettatori, poco seguito internazionali, giocatori che se ne vogliono andare nonostante i lautissimi stipendi. La Saudi Professional League doveva essere il Bengodi ma non lo è diventato. E ora il fondo sovrano dell'Arabia Saudita ha deciso che non investirà ancora nel calcio

Anche i ricchissimi a un certo punto devono fare i conti con i soldi che ci sono, o meglio sono rimasti. Va a finire sempre così quando si fanno male i calcoli e non si tiene in considerazione il fatto che spesso non tutto ciò che viene studiato a tavolino si realizza. Il credere che un fatto A debba per forza determinare lo scenario B, senza nemmeno considerare la possibilità che invece si realizzi lo scenario C era, secondo il filosofo Émile Boutroux, la lampante dimostrazione dell’idiozia del positivismo.

Le società della Saudi Professional League hanno applicato il peggio del positivismo al calcio. Eppure i patti erano chiari: un anno fa il fondo sovrano dell’Arabia Saudita aveva assegnato ai club un budget triennale per far rendere attrattivo il campionato saudita. Le società hanno dato il via a una campagna acquisti sontuosa, speso soldi a palate per più o meno ottimi giocatori – 875,4 milioni di dollari usciti dal paese verso club stranieri – con la certezza che il fondo sovrano avrebbe continuato a foraggiare le società. D’altra parte i dirigenti erano sicuri dell’assoluta validità del sillogismo più in voga nel calcio: i campioni generano intesse, l’interesse riempie gli stadi, i campioni riempiono gli stadi. E soprattutto di questa postilla: il successo di pubblico convincerà il fondo sovrano a incrementare i finanziamenti.

Poteva andare diversamente? Assolutamente no, pensarono in estate. D’altra parte il solo arrivo di Cristiano Ronaldo nel gennaio del 2023 aveva incrementato di circa il 25 per cento il numero di spettatori medio a partita: da 8.200 erano passati a oltre diecimila. E del 117,2 per cento quelli del suo club, l’Al Nassr, passato da circa ottomila spettatori a partita a oltre 17mila. Sembrava l’inizio di una rivoluzione che avrebbe scombussolato il calcio europeo. A tal punto che i più attenti analisti animati da servile ossequio avevano già espresso l’idea di aprire le porte della Champions League anche ai club della penisola arabica, ma mica per piaggeria sia chiaro, per dare lustro a una competizione che rischiava di essere affossata dalla Superlega.

Il sillogismo però si è rivelato sbagliato. Non solo gli spettatori non solo aumentati, sono pure diminuiti ritornando ai livelli di due stagioni fa. E così i club si sono ritrovati senza soldi e soprattutto senza nessun buon argomento da portare al direttore operativo della Saudi Professional League per convincerlo a chiedere al fondo sovrano nuovi finanziamenti. Cosa potevano dirgli: che aver aumentato i prezzi per entrare in uno stadio dove si vedeva male e dove i presunti campioni dovevano giocare con e contro giocatori del tutto inadeguati era stata una sciocchezza che si poteva però sistemare con un po’ di quattrini?

A Blomberg, il responsabile del campionato saudita Carlo Nohra ha detto che non ritiene possibile una nuova ricca sessione di calciomercato e che, anzi, i club “che hanno stipulato accordi per più di una stagione, devono disfarsene per reperire i fondi necessari per poter intervenire sul mercato”. Insomma il messaggio è questo: avete speso male? avete concentrato in pochi mesi i fondi per tre anni? Cavoli vostri, il tempo delle vacche grasse è finito. E’ durato nemmeno dodici mesi.

Il sistema del calcio saudita aveva già iniziato a scricchiolare tra dicembre e gennaio. Non è ancora crollato, ma si è fortemente ristretto. Gli entusiasti dell’inizio erano sempre meno entusiasti, molti dei giocatori che erano arrivati in Arabia Saudita avevano iniziato a desiderare di tornare in Europa e qualcuno, tipo Jordan Henderson, c’era pure riuscito. Altri riprenderanno la via che avevano lasciato in estate. Alla faccia dei catastrofisti.

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