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Il Foglio sportivo

Il Cittadella spiazza la Serie B

Francesco Gottardi

Viaggio nel nuovo Chievo Verona. Quando i giocatori giusti sono sotto casa

Un giorno, quando il suo mondo spariva insieme a un modo di fare calcio, Sergio Pellissier ci lasciò il suo testamento ideologico. “Fidatevi: il nuovo Chievo è il Cittadella”. Dal Veneto al Veneto. Famiglia al timone e conti in ordine. Numeri in piccolo e sogni in grande. Aveva ragione l’ex attaccante: si può fare, anche nel 2024. Oggi il club granata naviga liscio in quota playoff, profanando ancora una volta le gerarchie della Serie B. Poker allo Spezia, beffata la Samp a Marassi. E lo schiaffo morale più cocente: doppio ko rifilato a quel Palermo finanziariamente pompato dagli sceicchi del Manchester City. Mentre il Citta – con appena 4,57 milioni di euro – conta il monte-ingaggi più basso della cadetteria. Come sempre. “È il non cambiare mai pelle a definire chi siamo noi”, spiega al Foglio sportivo Stefano Marchetti, storico direttore generale della società. “Quello di Sergio è un bellissimo complimento. Ed è vero: anche qui puntiamo sui rapporti umani, sulle persone, sulla coesione di un gruppo di lavoro collaudato che si perfeziona nel tempo. Alla lunga, tutto questo fa la differenza. Se mai dovessimo omologarci alle altre squadre sarebbe l’inizio della fine. Ma non accadrà. Non finché ci sarò io: mi occupo del Cittadella da vent’anni”.

E allora sentiamolo, questo quarto di secolo di paziente ascesa. “Primo elemento: non ho mai ragionato per budget”, dice Marchetti. “Quello che conta sono le idee e la programmazione. Puntare su motivazioni e senso di appartenenza: i giocatori giusti per il nostro progetto quasi mai costituiscono un problema di costo”. Così succede che i connotati tipici dello sport management moderno – ansia da plusvalenze, mercati esotici a setaccio – vengono meno a Cittadella. Come se la sua cinta muraria medievale, la più integra d’Europa, avesse custodito anche degli antichi pensieri di pallone. “Per creare l’alchimia bisogna conoscere bene i calciatori che andranno a formare lo spogliatoio. Soprattutto caratterialmente. Dunque è più facile con chi parla la lingua e proviene da una realtà condivisa”. Semplice. Ma se gli altri club fanno sempre più fatica ad arruolare italiani in rosa, perché il Cittadella – 27 su 29 – ci riesce? “Tanti contatti, scouting, partite da visionare senza tralasciare mai nulla”. Più la specialità della casa: “L’integrazione verticale. Ho sempre lavorato molto con le categorie inferiori: ci vuole preparazione, presenza costante. Ma ti accorgi di aver seminato bene quando poi scelgono di segnalare a te il talento di turno. Vale sia per il vivaio, sia per la prima squadra. Esistono ancora giocatori forti nei campi di provincia”. Il problema, lontano dal Tombolato, è che si sta sfilacciando la rete di fiducia un po’ ovunque. “E infatti l’altra questione chiave è la capacità di gestione: un nostro grande punto di forza”.

Eccoli, gli uomini del Citta. “Mister Edoardo Gorini, Roberto Musso, ‘nonno’ Pierobon”. Allenatore, vice e preparatore dei portieri – fino a 46 anni giocava lui: il più longevo nella storia del professionismo italiano. Di questo e altri primati sono molto orgogliosi da queste parti. “Mai esonerato qualcuno: non si può lavorare bene col fucile puntato. E infatti chi ha dato tutto per questa maglia oggi rimane con noi in altre vesti”. Altrove i memorabilia magari son fatti di coppe e goleador. “A me invece piace menzionare i massaggiatori, gli autisti, i preparatori atletici come Andrea Redigolo che sono qui da sempre”. E fra i calciatori? “Dico Manuel Iori”, ex centrocampista e recordman di presenze (339). “Un esempio di riconoscenza e legame fraterno: doti sempre più rare”. Marchetti si toglie un sassolino. “Non mi piace il carrierismo di certi giocatori. Un tempo si diceva che il Cittadella fosse un trampolino di lancio, oggi pretendiamo che sia un punto d’arrivo: chi non sente la scintilla è meglio che cambi aria. Tutti gli altri, capaci di calarsi nella mentalità del nostro ambiente, prima o dopo avranno belle soddisfazioni”.

Due finali playoff negli ultimi cinque anni. Ricostruzione tecnica. E di nuovo, oggi, lassù fra le grandi. “Creiamo talenti per mandarli in Serie A, ma vogliamo arrivarci anche noi”, sorride il dirigente. Poco importa che i ragazzi di Gorini abbiano inanellato nove partite di fila senza sconfitte. Poco importa che abbiano perso le successive tre. “A volte è più difficile gestire le vittorie: per stare davanti ci manca la cura dei dettagli. Eppure siamo inossidabili. Per due volte in passato, contro Verona e Venezia, siamo arrivati a un millimetro dal traguardo. Qualsiasi altro club avrebbe accusato il colpo: non il Cittadella. Andiamo avanti a testa bassa, senza farci abbattere o inebriare dai risultati”. È un ciclo che si ripete, regolare come il levar del sole. “Ogni anno cambiamo tanto: squadra nuova da testare e capire. Poi si ragiona per gradi: il primo obiettivo è sempre la salvezza. A quel punto non rinunciamo a niente e tentiamo il massimo: la promozione sarebbe il nostro scudetto”.

Al famoso Chievo ci vollero sette Serie B di fila per riuscirci. Il Citta è arrivato all’ottava. “Ci vorrà quel che ci vorrà”, non si scompone Marchetti. “Inoltre contiamo su una proprietà straordinaria: la famiglia Gabrielli – colosso del siderurgico, ndr – ha fondato questo club cinquant’anni fa per farlo crescere con raro equilibrio e rispetto dei ruoli. Attorno al nostro presidente Andrea si è compattato un paese da 20mila abitanti. Chi tifa, chi coinvolge e chi lavora: ognuno fa la sua parte. Non ci sentiamo mai soli. E con questo sentimento procediamo”. La prossima tappa? “Investire sulle infrastrutture, migliorare il centro sportivo. Ma senza mai mettere a rischio il bilancio. Lo diceva sempre, il nostro vecchio paròn”, in rigoroso dialetto veneto: “Stefano, ricordite che el Sitadèa ga da esserghe ancò, doman e anca dopodoman. Guai a fare il passo più lungo della gamba”. È per questo che il Citta non fallisce. Al massimo aspetta un altro po’.

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