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Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA

José Mourinho, il dio del fuoco

 Alessandro Bonan

Capo di un popolo, l'ormai ex allenatore giallorosso ha pensato che per vincere bastasse portare avanti una specie di “lotta di classe”, usando gli arbitri come sagoma del potere, trascurando il gioco, anzi restandone vittima lui stesso

Ora che se n’è andato il grande comunicatore come faremo? Dal suo ritorno in Italia, Josè Mourinho ha monopolizzato il dialogo tra Roma e il calcio alla vecchia maniera, sfidando in avanzata e ridendo in arretramento: ghigno per offendere e ironia per difendersi. È sempre stata la sua modalità d’azione, solo che a Roma, mia percezione di uomo senza coraggio (ma di fatto non ho mai avuto l’occasione di dirglielo in faccia), ha leggermente esagerato, trasformando le partite della Roma in una questione personale contro il mondo arbitrale. Lo ha fatto alla maniera degli spaghetti western, dove il brutto era l’arbitro, il buono era la squadra e il cattivo era lui. Il perché è presto detto: la solitudine. 


Mai, come nella sua esperienza romana, il portoghese si è comportato come un uomo in fuga, alla ricerca di una vetta imprendibile. Nessuno a coprirgli le spalle, a tamponare le rincorse degli altri, né la società, sempre zitta come se parlare fosse volgare, né il direttore sportivo, portoghese come lui eppure poco affine nei sentimenti e nelle scelte. Dalla sua parte solo la città, quella chiassosa e popolare, che discute nei bar (a Roma ci sono ancora per fortuna), che grida allo stadio, le sore lelle, i tassinari, gli stornellatori da osteria, il popolo in una parola. Il resto, la cosiddetta intellighenzia, attori, scrittori, politici e professori di vita, si barcamenava in un chiacchiericcio di disapprovazione nascosto per la paura di sollecitare la reazione scomposta della pancia della città, tutta schierata dalla parte dello Special One. 

E così, capo di un popolo, Mourinho ha pensato che per vincere qualcosa bastasse portare avanti una specie di “lotta di classe”, usando gli arbitri come sagoma del potere, trascurando il gioco, anzi restandone vittima lui stesso, visto che se alzi la testa dentro una trincea rischi di ritrovarti impallinato. Di lui ci restano le lacrime un po’ sospinte della vittoria in Conference League, in una notte comunque maggica, con due g, quella faccia da attore che ci conquista sempre anche se ormai conosciamo tutti i copioni dei suoi film, e la sensazione di trovarci comunque di fronte ad un uomo che avrebbe potuto essere anche altro, un dio pagano (voto Vulcano, signore del fuoco), un medico, un filosofo, tanto è fluida la sua intelligenza. Ci mancheranno i suoi discorsi ora che ne restiamo orfani, lasciandoci distratti dentro una selva oziosa di parole.
 

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