tra calcio e letteratura

Viaggio tra gli stadi più strani del mondo

Marco Pastonesi

Dagli atolli alle pendici dell'Everest, dal Penzo di Venezia a quello galleggiante. Nel libro di Vladimir Crescenzo c'è "giro del mondo in 80 stadi"

Il più isolato è quello di Mahibadhoo, alle Maldive: si trova in un atollo, per arrivarci ci vuole un fuoribordo e almeno un’ora e un quarto di viaggio dalla capitale Malè, per questo la squadra locale può solo allenarsi ma mai ospitare partite, e gioca sempre in trasferta. Il più alto è quello di Sagarmatha, in Nepal: è stato costruito a tremila metri di altitudine, lungo la strada che conduce al campo base dell’Everest. Il più ondoso è quello di Marina Bay, a Singapore: si chiama The Float, è galleggiante, allestito sul mare, però le tribune sono sulla terraferma. Il più protetto è quello di Traù, in Croazia: è fra due siti classificati nel patrimonio mondiale dell’Unesco, il castello di Camerlengo e la torre di San Marco, del XV secolo. 
Il più sciistico (sì: esistono anche quelli sciistici) è quello a Pyeongchang, nella Corea del Sud: costruito sull’area di atterraggio del doppio trampolino per il salto con gli sci, costruito per i Giochi olimpici invernali del 2018

Vladimir Crescenzo ha compiuto Il giro del mondo in 80 stadi (Meltemi, 192 pagine, 30 euro), dove il calcio è storia e soprattutto geografia, è linea di metà campo e soprattutto territorio, è dischetto del rigore e soprattutto madrepatria. Non solo giocare, ma anche respirare, abitare, accogliere, vivere, convivere. E ogni stadio vanta almeno una straordinaria storia da tramandare.

Come la storia dello stadio A Molini, nelle Isole Faroe: costruito tra rocce e mare nel 1914 da volontari, per 94 anni ha ospitato le partite di un club attraverso le sue varie fusioni, finché è stato abbandonato per un impianto meno spettacolare ma più capiente, duemila spettatori, 10 volte gli abitanti del villaggio – Streymnes – che lo ospita. O come la storia del campo del baobab nell’isola di Gorée, a Dakar, in Senegal: un baobab sacro, da più di cento anni, troneggia a metà campo, inamovibile perché ospiterebbe gli spiriti dei defunti di questa “isola-memoriale”, simbolo del ricordo della tratta degli schiavi in Africa, ma anche fonte di regole particolari (se il pallone rimbalza sul baobab e provoca un gol, il gol non viene convalidato perché l’albero non ha il diritto di segnare). O come la storia dello stadio Mahamasina di Antananarivo, nel Madagascar: il 31 ottobre 2002 ospitò la partita del campionato tra Adema e Stade Olympique de l’Emyrne, il derby della capitale, fino a questo punto in lizza per vincere lo scudetto, ma sentitisi penalizzati per certe decisioni arbitrali nel precedente match i giocatori dello Stade Olympique protestarono segnando volontariamente nella propria porta: risultato finale 149–0, con inevitabili proteste degli spettatori e enormi sanzioni del giudice.

Tra gli 80 stadi ce ne sono tre italiani. Il Renato Dall’Area di Bologna, nato come Littoriale durante il ventennio fascista, seconda casa di goleador storici come Angelo Schiavio e Carlo Reguzzoni nonché della ormai estinta Mitropa Cup, la Coppa dell’Europa centrale. Il Pier Luigi Penzo di Venezia, scelto perché per arrivarci i tifosi devono prendere non l’autobus o il tram o la metro, ma il battello: l’impianto sta sull’isola di Sant’Elena. Quanto al Comunale San Costanzo di Capri, il motivo è meno gratificante: lo stadio è citato come testimone della storia di malaffare del Racing City Group di Morris Pagniello, implicato nella gestione di 11 club sparsi per il mondo, fra partite truccate e azioni penali. 

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