Giovanni Sartori - foto LaPresse

Il Foglio sportivo

Giovanni Sartori mette l'uomo prima dell'algoritmo

Lorenzo Cascini

La storia del direttore sportivo che assieme a Thiago Motta ha costruito un grande Bologna

Quando ti mandano il suo numero pensi ci sia un errore. ‘Non ha WhatsApp, sarà sbagliato. O magari lo ha cambiato’. Chiedi conferma e scopri che il numero invece è quello. Giovanni Sartori è un direttore sportivo sui generis, che nell’epoca dei social e della condivisione costante di ogni cosa non ha neppure WhatsApp. “Sono uno all’antica, alzo il telefono e chiamo. E credo ancora molto nei rapporti umani, che si creano di persona”. Si racconta così. Ma è il suo modo di essere nella forma più semplice e pura. 

Giovanni Sartori, oggi responsabile dell’area tecnica del Bologna, oltre a essere un uomo particolare è anche un direttore sportivo particolare. Lavora a modo suo. Vuole carta bianca, è aziendalista, si fida del suo occhio più che di algoritmi e Wyscout. Anche se li usa, con l’aiuto di Di Vaio. Guardano insieme, studiano, si informano. Anche se poi l’ultima parola la ha sempre l’uomo e quindi si va a verificare di persona. Rapporti umani al centro dell’universo. Ovunque è andato ha lasciato il segno. Con un’identità precisa, un marchio che resta nel tempo. Il primo al Chievo dei miracoli. Poi l’Atalanta e ora il Bologna. Ma andiamo con ordine. 

Parte tutto da una richiesta, insolita a dir la verità, fatta dal presidente Luigi Campedelli ai tempi del Chievo. “Che ne dici di smettere?”. “Ma come? Ho trent’anni e posso ancora dare qualcosa”. “Fidati ho qualcosa di diverso in mente per te”. La chiacchierata tra i due deve essere andata più o meno così, quel che è certo è che tutto quello che il pres. aveva visto si è poi avverato nel tempo. È rimasto al Chievo per 30 anni. Ha iniziato come viceallenatore, il campo base da cui è partita la scalata, poi ha raggiunto la vetta della prima squadra. Fino all’Eldorado. Dall’oratorio a Bottagisio ai preliminari di Champions League con il Chievo. Oggi con il suo Bologna è quarto a pari punti con la Roma. In piena zona Europa. Ed è ancora una volta merito del suo intuito, oltre che ovviamente grazie a un grande lavoro svolto in sinergia con Thiago Motta e tutto lo staff. Se ad agosto ci si metteva a leggere la rosa rossoblù nessun nome balzava all’occhio: tante scommesse, tanti giocatori da rivitalizzare – vedi Calafiori o Zirkzee – e un gruppo da amalgamare. Ci sono riusciti alla perfezione e ora sognano in grande. Ci arriveremo. 

Intanto riavvolgiamo il nastro. A Sartori, in realtà, la prima sfida gliel’ha messa di fronte il destino. Giovanni diventa direttore sportivo nel 1992 e pochi giorni dopo Luigi Campedelli muore. Cambia tutto di nuovo? No, perché vince l’istinto. Decide di restare. Giovane lui, giovane il nuovo presidente – il figlio Luca – giovane l’allenatore, Alberto Malesani. Si faranno forza e faranno strada. Sartori è uno che del calcio conosceva e conosce tutto, negli anni ha solo allenato il fiuto. Soprattutto delle serie minori. Era così già da giocatore. Ha girato tanto, visto tantissimo calcio di ogni categoria e tipo. Nel fiume Stige della gavetta è stato immerso da giovane, e quando entri in certe dinamiche non ne esci più: ti restano dentro. Questione di metodo e di approccio al lavoro. Si è adattato ai tempi che corrono, facendo affidamento sempre e solo al suo occhio. “Gli algoritmi sono utili, ma il ragazzo lo devo vedere”. Diktat consolidato nel tempo. È diventato direttore sportivo quando non esistevano i telefonini e non ha cambiato modus operandi. 

Chi ci ha lavorato lo racconta come uno capace di prendere un aereo in piena notte per andare a visionare una partita di Serie D. È questione di guizzo. La capacità di andare a prendersi le occasioni. E i colpi messi a segno parlano per lui. Funzionali, più che campioni. I suoi uomini si muovono come quelli delle guide gastronomiche con giudizi incrociati, più schede, più pareri sullo stesso giocatore. Poi l’occhio. Lo vede, lo rivede, ci pensa. 

Se c’è la possibilità crea un contatto. Conosce il ragazzo, la famiglia. È molto pragmatico e deciso sia nella vita che nel lavoro. Vanta una lunghissima lista di nomi tra talenti scovati o giocatori che grazie alla sua chiamata hanno ritrovato una seconda vita calcistica. Del miracolo Chievo, con la promozione in massima serie nei primi anni Duemila e l’ascesa fino ai preliminari di Champions, lui è stato sicuramente uno dei principali artefici. Questi i suoi trofei più belli. Per dare la misura del suo lavoro basta citare un dato: Sartori guarda live più di 200 partite all’anno e nella sua carriera ha chiuso circa mille trattative. Guarda, scopre, valuta, valorizza. Lo ha fatto al Chievo, poi all’Atalanta e ora al Bologna. Quando era a Bergamo e collezionava qualificazioni in Europa e finali con un utile complessivo di 164,2 milioni di euro, il Bologna – nello stesso arco temporale – registrava un rosso da 112,9 milioni. I colpi parlano per lui. Raccontano una storia di scoperte, blitz e pepite d’oro scovate da sottoterra. Da Amauri, Perrotta, Semioli & Co. al Chievo alla banda delle plusvalenze dell’Atalanta Bastoni, Kessie, Cristante, Conti e via discorrendo. Più di 300 milioni di utili. Altri numeri che danno la cifra del personaggio. Ora a Bologna si gode Lucumí, Posch, Ferguson e Zirzkee

L’ultimo è l’uomo in copertina di questo inizio di stagione. Arriva dal Bayern, due anni fa ha fatto una comparsata a Parma senza brillare. Ora si è ripreso la A a suon di gol: 8 in questo avvio di stagione, tra cui i due di domenica, decisivi per la vittoria in casa della Salernitana. Sartori viene quindi raccontato dagli acquisti, le scoperte, le plusvalenze e i pochissimi errori. Ma non solo, gli si riconoscono anche grandi qualità nei rapporti umani. Niente di nuovo e nulla che non sia stato già detto. Quel che sorprende sempre è la capacità di stupire, di tirare fuori il coniglio dal cilindro, di aggiornarsi e di stare al passo con i tempi, seppur mantenendo il suo stile e il suo metodo di approccio alle trattative. A lui l’ultima parola. La pennellata dell’artista che dà un’altra forma al quadro, la visione in grado di trasformare i pensieri in fatti concreti. Sartori negli anni è stato unico nell’unire il pallone ai rapporti umani, due aspetti diversi che invece di elidersi si completano a vicenda, formando a 360 gradi la figura del Giovanni Sartori diesse. Simbolo di un calcio e di un modo di fare il mercato che oggi non esiste più.

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