Il Foglio sportivo

Ribot era bruttarello, ma imbattibile

Francesco Pierantozzi

La grande storia vincente del cavallo italiano che ha conquistato la Francia e l’Inghilterra

Ribot, il cognome di un pressoché sconosciuto acquarellista dell’Ottocento, Théodule Ribot, è diventato sinonimo di ippica, di galoppo nel mondo. Un ambasciatore d’Italia, oggi diremmo, con la storpiatura della nostra lingua sempre più piegata all’inglese manageriale, del “made in italy”. Un cavallo, meglio purosangue, imbattibile, 16 corse disputate, 16 vinte tra il 1954 e il 1956. Con l’aggiunta e la sottolineatura della qualità oltre che della quantità. Ribot vince in Francia, per due volte, l’Arc de Triomphe, la corsa più importante, con più fascino, più alla moda che ci sia in Europa, vince in Inghilterra, le King George and Queen Elizabeth Stakes, guadagnandosi l’appellativo di “the wonder horse”, e sappiamo quanto sia difficile farsi solo prendere in considerazione negli sport inglesi dagli inglesi. Insomma stupisce tutti. Perché è anche il simbolo dell’Italia alle soglie del boom economico, con le prime seicento che circolano sulle strade, reduce dalle macerie della Seconda guerra mondiale, perché ha riempito pagine di quotidiani, di settimanali e diventando protagonista pure dei primi servizi televisivi come e più dei calciatori, a livello di Coppi e Bartali o della spedizione italiana che conquista il K2. Un capolavoro costruito e creato da chi non lo avrebbe poi visto nemmeno correre in pista, perché sarebbe scomparso nel maggio del 1954, prima del suo debutto in gara. Parliamo di Federico Tesio, proprietario, allevatore, allenatore, tutto insomma.

A proposito il nome viene scelto proprio da Tesio, che ha sempre cercato tra artisti, scultori o pittori, i nomi per i suoi puledri, allevati rigorosamente in Italia, con precise linee di sangue da lui studiate, partendo dalla prima lettera del nome della madre. “R” quindi da Romanella, femmina che in pista senza strabiliare aveva fatto il suo, nonostante dei problemi agli arti inferiori, “coperta”, nessuno si scandalizzi per il termine, come fattrice da Tenerani, stallone sempre fatto in casa, capace di vincere un Derby e persino in Inghilterra. Due soggetti un po’ scalmanati che fanno impazzire Tesio. 
Forse per questo Ribot all’inizio non viene considerato molto, aggiungiamo pure un aspetto strutturale non certo regale, venuto al mondo con un fisico ordinario, persino bruttarello per dirla tutta, sgraziato. Da esteta Federico Tesio non avrebbe potuto certo entrare nella galleria degli immortali, tipo Raffaello, per stare alla “R”…

Ecco allora Ribot, che si sarebbe dovuto dare all’ippica per entrare nella notorietà, wikipedia compreso. Cavallo italiano nato, tuttavia, nel 1952, a Newmarket, non lontano da Londra, per poi crescere e vivere in Italia tra Dormelletto e i paddock dell’Olgiata, tra San Siro e San Rossore, Pisa. Proprio in Toscana quel puledro ignorato si guadagna, poco alla volta, la simpatia di artieri, fantini e caporali di scuderia… simpatico e persino il grande “capo” un giorno si lascia andare: “Ribot potrebbe avere un avvenire brillante. Questo piccolo sarà un giorno qualcuno”. 

Tesio non lo vedrà debuttare il 4 luglio 1954 a Milano, perché se ne va, come detto prima, a 85 anni il 1° maggio. Debutto con successo a San Siro nel premio Tramuschio sui 1.000 metri. In sella Enrico Camici, fantino pisano, che lo accompagnerà per tutta la carriera, un binomio che gli appassionati conoscono bene. Camici è capace di assorbirne gli umori, un po’ come fa l’altro purosangue Magistris, sempre in coppia per allenamenti e trasferte, una specie di compagno tranquillizzante, per il carattere bizzoso di Ribot. Di solito nel box dei purosangue si inseriscono altri animali, magari una capretta, per evitare che il cavallo si agiti e finisca col farsi male da solo, sbattendo da una parte all’altra del suo “monolocale”. Ribot, come ricorda Ofelia Camici Benetti, nel documentario in onda su Sky sport, a partire dal 5 dicembre e disponibile on-demand, la figlia del fantino Enrico Camici, alla fine della carriera, in una kermesse pubblica arriva a buttare giù dalla sella suo padre, che finisce a terra, “una specie di vendetta, adesso faccio quello che voglio io avrà detto, non faccio quello che vuoi tu”. 

Camici abita vicino alla casa pisana di Ribot, arriva in bicicletta, è un uomo di poche parole. Nicola Melillo, nel suo “Io, Ribot. La mia vita da Figlio del vento” (Limina, 2012), fa idealmente raccontare la storia dallo stesso protagonista, da Ribot appunto, immaginando che possa parlare e del suo fantino dice: “Accettai presto le sue mani. Qualche volta gli permisi perfino di rallentarmi in corsa. Aveva mani dolci e gentili, modi fermi ma rispettosi. Fu lui a capire presto che se mi avesse lasciato fare avrei potuto spaccare il mondo. Aveva chiaro di che pasta ero fatto”. Ribot ha un fisico fuori dal comune, taglia piccola a parte, perché riesce ad ogni inspirazione a immagazzinare 26 litri d’aria, come avere il 30 per cento in più, un surplus che lo accomuna a Fausto Coppi, tanto per fare un esempio. Nel 1954 vince le 3 corse disputate, l’anno successivo salta il derby per un problema burocratico, dopo aver impressionato vincendo il Premio Pisa per poi far sue a San Siro le successive corse. Non resta che andare a Parigi, Longchamp, all’Arc de Triomphe, la corsa delle corse, e il 9 ottobre 1955 Ribot entra nella leggenda. Si ripeterà l’anno successivo aggiungendo, prima, davanti addirittura alla Regina Elisabetta, proprietaria e grande appassionata, ad Ascot, le King George and Queen Elizabeth Stakes. Il secondo Arc viene teletrasmesso, una delle prime dirette dell’epoca, per portare nelle case in Italia quel cavallo di cui tanto si parla. È l’ultimo trionfo, 16 corse, 16 vittorie. Poi il ritiro. 

La giubba bianca con la croce di Sant’Andrea rossa di Tesio, oggi razza Dormello Olgiata, diventa un riferimento, una bandiera per cui tifare, che unisce gli italiani, la Ferrari del galoppo. E quando la si indossa si sente qualcosa di particolare. Lo sa anche Frankie Dettori che proprio nelle ultime corse della carriera, con Tempesti, l’ha avuta addosso. Il miglior fantino del mondo, col record di successi, 6, nell’Arc de Triomphe, solo per dare un dato, che si emoziona, che sente l’orgoglio italiano che la accompagna.  Lanfranco, detto Frankie, figlio del “mostro” Gianfranco, fantino a sua volta, è stato ed è ancora il nome del galoppo di casa nostra nel mondo, pur essendo cresciuto professionalmente e vivendo in Inghilterra, guarda caso a Newmarket, insomma il Ribot dopo Ribot, il Ribot dei giorni nostri, degli ultimi venti-trenta anni.

Ribot se ne va nell’aprile del 1972, dopo essere stato coccolato da riproduttore, stallone, nel Kentucky, a Lexington, terra della “blue grass”. L’annuncio al tg Rai dell’epoca provoca qualche lacrima e molti ricordi. Per un galoppo in profonda crisi in Italia non resta che rivedere anche oggi le immagini di 70 anni fa e la storia del cavallo imbattibile col nome del poco noto acquarellista francese.

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