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Gino Bartali era una resistenza

Giovanni Battistuzzi

Almeno per il grande pubblico del ciclismo Ginettaccio nacque il 18 marzo 1935 sul Capo Cervo. Vent'anni fa l'addio al campione di Ponte a Ema

Nemmeno alla Nazione, che già ne aveva raccontato il talento e che più e più volte aveva raccontato la sua “tempra di ragazzo infaticabile, tanto da risultare arcigno su di ogni terreno, in specie nello salire monti e montagne”, avrebbero mai pensato a qualcosa del genere. E infatti il giorno prima avevano scritto di Alfredo Binda e Learco Guerra, di Giuseppe Olmo e Giuseppe Martano. Anche di Aldo Bini, soprattutto di Aldo Bini, che era sì anche lui al primo anno di professionismo, ma che l’anno prima qualche corsa da indipendente l’aveva fatta e, soprattutto, aveva fatto secondo alla Coppa del Re, e sembrava fatto a posta per una gara come quella. Di lui solo una riga, per dare la notizia della sua partecipazione, da isolato, sebbene in maglia Frejus avesse già disputato due gare.

 

Aldo Bini quella Milano-Sanremo la concluse al sesto posto, superato allo sprint dei battuti da Alfredo Bovet, a poco meno di due minuti dal gruppo che si giocò la vittoria. Primo Giuseppe Olmo, davanti a Learco Guerra e Mario Cipriani. Quarto lui, l’isolato a cui l’isolato dedicò una riga e che mai avrebbe pensato a qualcosa del genere.

 

Perché “se avesse vinto Bartali! Credo che Bini, arrivando, sarebbe morto di colpo nell’apprendere la notizia: perché – se non lo sapete – i due si possono vedere come cane e gatto. E io credo che per questa rivalità, avremo due campioni, volendo i due superarsi: e per superarsi si allenano con puntiglio. Ma, scherzi a parte, Bartali meritava il successo”, scrisse Ennio Mantella sul Littoriale del 19 marzo 1935.

 

Gino Bartali nacque quel giorno, almeno per quanto riguarda il grande ciclismo. Nacque con uno scatto sul Capo Cervo e “dopo il Berta, quand’era solo e pedalava con furia, vedendo lì a due passi San Remo e non potendo volare, come avrebbe voluto, gli son venute le lacrime”. Lacrime di rabbia, perché a Sanremo Gino Bartali quel giorno, quel 18 marzo 1935 poteva arrivarci prima di tutti. Non fosse stato per quel cambio malandrino e per quella catena che non voleva sapere di girare come doveva. Si dovette fermare, sistemare l’ingranaggio, osservare Cipriani, Guerra e Olmo sorpassarlo, rincorrerli, raggiungerli e accorgersi solo allora di avere speso troppe energie per poter solo pensare a impostare la volata. In nemmeno un mese, dopo la crisi nella Genova-Nizza, la seconda delusione. “Poteva essere meglio, ma almeno l’Aldo è dietro”, disse alla Nazione dopo la corsa.

 

 

Ginettaccio la Sanremo la conquistò per la prima volta quattro anni dopo, nel 1939, quando era già diventato “di grazia il più virtuoso corridore dell’italico pedale e del mondo tutto”, scrisse Mario Bonfantini sullo Sport illustrato.

 

Perché su di una cosa aveva ragione Mantella: Bartali un campione lo divenne davvero, Bini avrebbe potuto, ma non ha voluto.

 

Lo dicono i numeri, il palmares, le imprese sui pedali. Lo dice soprattutto il ricordo e l’amore che ancora, a vent’anni dalla morte, oggi, lo rendono una presenza, una realtà e non solo un ricordo lontano nel tempo. Perché a oltre settant’anni dalle sue ultime imprese in sella, dalle sue sfide con il secondo e vero grande rivale, Fausto Coppi, ci sono ancora persone che si rivedono nel loro modo di correre, c’è chi si ritiene ancora coppiano e bartaliano. E in questi aggettivi ancora un senso c’è, ancora una ragione d’essere la si trova. Perché Bartali e Coppi sono un unico mondo, quello della bicicletta, ma galassie tangenti, del tutto simili eppure completamente diverse. Coppi, quando nel 1940 si presentò nel palcoscenico del grande ciclismo, fu una novità, un colpo vanga su di una terra fertile, ma coltivata da sempre allo stesso modo. Quel modo del quale Gino Bartali fu l’ultimo frutto.

 

  

Ginettaccio è stato esplorazione. Dei limiti umani, della sofferenza, delle Dolomiti, quando il 26 maggio 1937, nella Vittorio Veneto-Merano, scattò sul Passo Rolle e sotto il Cimon della Pala, accanto alla chiesetta che segna la vetta, scollinò primo e solo.

 

Ginettaccio è stato soprattutto una resistenza di un mondo, destinato a cambiare, ma che non sapeva come fare. Un ultimo coup de théâtre di uno spettacolo che era iniziato con la bicicletta e che stava per essere oscurato da un sipario bianco, sfondo perfetto per la proiezione della modernità.

 

Bartali è stato l’ultimo vincente a vivere di pane, vino e ciclismo, un essere preistorico della bicicletta fatto di talento purissimo e testa dura, di refrattarietà a qualsiasi tabella di allenamento, a qualsiasi modernismo chimico e nutrizionale. Era fatto a modo suo, in un modo antico, quello dei corridori da distanze infinite, che consumano gli altri a forza di rapporti lunghissimi e scatti continui.

 

 

Ginettaccio è stato una resistenza. Alla fatica prima di tutto, alla propaganda di un regime ignobile che cercava di ripulirsi la faccia con quella dei campioni dello sport, all’infamia di un repulisti razziale, alla modernità che avanzava e che stava, pian piano, cambiando l’Italia rurale che l’aveva visto nascere.

 

Era l’Uomo di Ferro per tutto questo, e poco male se non fosse stato il primo Uomo di Ferro, se Louis Mottiat lo fosse stato prima di lui. Poco male, pure Girardengo è stato Campionissimo prima di Coppi.

 


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Ginettaccio ha anticipato l’Airone e lo ha superato. Ha visto nascere il talento di Coppi, ha dovuto sopportare la sua dipartita, proprio quando i loro due nomi dovevano essere riuniti sotto l’effige di una stessa squadra: Bartali in ammiraglia e Coppi, per l’ultimo anno, in sella. Bartali dal 2 gennaio 1960, non fu sono Gino, divenne anche memoria storica di un mondo che non c’era più, che non sarebbe mai tornato. Una memoria che dura ancora, pur essendosi interrotto vent’anni fa e quarant’anni dopo dei quarant’anni che aveva l’Airone quando chiuse gli occhi. “È come se avessero strappato una bandiera”, disse Alfredo Martini a Repubblica il 5 maggio del 2000. “Bartali dopo la guerra grazie alla sua simpatia è stato il principale ambasciatore dello sport italiano. Lo ricordo come un grande credente, uno che non si lamentava mai e che era mosso da una grande forza interiore”. 

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