Foto Ap, via LaPresse

alla coppa del mondo di rugby

Le simulazioni hanno contagiato pure il rugby

Marco Pastonesi

Il pallone ovale è meno ovale, e questo sport inizia a sembrare un po' il calcio tra cambi, proteste, maggior gioco coi piedi e soprattutto sceneggiate

E’ vero che il rugby, considerato uno spettacolo, condizionato dalla tv, modificato dal professionismo, stia diventando, almeno un po’, come il calcio? Sì, è vero, almeno un po’.

Innanzitutto perché si gioca, molto di più, con i calci. Non solo quelli piazzati e di rimbalzo, che danno punti, ma anche quelli up-and-under (palloni alti a campanile e giocatori sotto a contendersi il possesso del pallone), quelli a esplorazione (del territorio avversario), quelli di liberazione, quelli di possesso (le regole, che una volta penalizzavano chi calciava fuori dal campo assegnando il lancio della rimessa all’altra squadra, da tempo lo privilegiano lasciandogli – appunto – il possesso), perfino quelli di passaggio (più rapidi del passaggio con le mani e, data l’abilità di chi calcia ma anche di chi riceve, non meno sicuri). E soprattutto quelli per lasciare l’iniziativa all’altra squadra, perché, analizzando le partite, scansionando le azioni, contabilizzando le cifre, si è stabilito che la squadra che calcia di più vince di più.

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Il rugby sta diventando, almeno un po’, come il calcio, anche a prescindere dai calci. Per esempio, l’intervallo: una volta le squadre rimanevano in campo, la sosta era di cinque minuti, giusto il tempo di tirare il fiato, scaldarsi con un bicchierino di tè caldo e ascoltare una raccomandazione tecnica, e si ricominciava; adesso si arriva al quarto d’ora, con il rientro negli spogliatoi, il cambio delle maglie, l’uso degli integratori e le pubblicità televisive. Per esempio, le sostituzioni: 30 anni fa c’erano solo due panchinari, un avanti e un trequarti, così si usciva dal campo in barella, cioè solo quando non si fosse stati in grado di stare in piedi sulle proprie gambe; adesso ci sono otto cambi, quindi riguardano più di metà squadra, la prima linea resiste – fisicamente - poco più di un tempo, poi c’è chi entra ed esce, e qui più che calcio sembra quasi basket o football americano. Per esempio, il pubblico: mai e poi mai si sarebbe fischiato durante gli inni o le danze guerriere prima dell’inizio della partita, adesso lo si fa; mai e poi mai si sarebbe ululato durante i calci piazzati, adesso la preghiera di non farlo viene rivolta sugli schermi luminosi. Per esempio, le proteste: una volta l’unico ammesso (e non sempre) a parlare (a domandare) con l’arbitro era il capitano, pena “i 10 metri”, cioè l’arretramento di 10 metri da parte della intera squadra di chi protesta, adesso molti si sentono in diritto di contestare (e contestano) le decisioni arbitrali, dallo scuotere la testa al sorridere con ironia o al rivolgere parole di dissenso. Per esempio, il pallone: quello del rugby è sempre ovale, ma un po’ per la composizione sintetica del pallone stesso, un po’ per quella del campo, un po’ per la pressione – interna - dell’aria, un po’ anche per l’abilità dei giocatori, i rimbalzi sono meno ubriachi, meno cubisti, meno imprevedibili, insomma più regolari.

Il rugby sta diventando, almeno un po’, come il calcio, ed è l’aspetto più grave, nelle simulazioni. Mai e poi mai si sarebbe fatta “la scena”. Al contrario: sminuire, minimizzare; continuare, proseguire; coraggiosamente, ostinatamente. La regola – una regola non scritta di un codice antico e accettato anche dagli arbitri - era chiara: prenderle e restituirle, buone e cattive, così come darle e poi essere pronti a riceverle. Nascondendo dolore e onta, trasformandoli addirittura in orgoglio e vanto, promettendo un immediato regolamento dei conti. Invece adesso si accentuano contatti e si ingigantiscono effetti, nella speranza che il presunto colpevole sia allontanato dal campo almeno per 10 minuti con un cartellino giallo e così godendo della superiorità numerica.

Ma il rugby non potrà mai diventare come il calcio. Se l’origine è simile, la natura è diversa. Finora la partita più entusiasmante, intensa e memorabile è stato il quarto di finale (nella composizione dei gironi il rugby dovrebbe forse imparare dal calcio) tra Irlanda e All Blacks. L’ultima azione della partita, a tempo ormai scaduto, è durata 37 fasi. Gli irlandesi in attacco, i neozelandesi in difesa. Gli irlandesi a cercare uno spiffero, un varco, i neozelandesi a erigere un argine, una diga. Senza errori, tecnici e disciplinari. La giusta perfezione della parità. L’eterna bellezza dell’ovalia.

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