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Champions League

C'è molto del Real Madrid nella crescita recente del Napoli

Andrea Romano

Contro gli spagnoli iniziò la storia in Champions League, all'epoca Coppa dei Campioni, degli azzurri. Il ritorno alla vittoria in campionato dei partenopei è la tappa finale di un percorso "iniziato" proprio nella capitale spagnola dieci anni fa

L’incipit della storia è stato scritto il 16 settembre del 1987. In una stanza senza finestre del Jockey, un ristorante esclusivo situato in calle Amador de Los Rios, a Madrid, i vertici del Real stanno ricevendo la delegazione del Napoli. In serata i due club si affronteranno nel primo turno di Coppa dei Campioni. E il protocollo vuole che vengano curati anche i buoni rapporti fra le società. A un tratto il presidente delle merengues Ramón Mendoza si schiarisce la voce e dice: "Siamo felici di tenere a battesimo una squadra che soltanto ora arriva in Coppa dei Campioni, noi che ne abbiamo vinte sei e che di strada ne abbiamo fatta tanta". Poi si gira verso Giulio, il figlio del presidente Ferlaino, e gli sussurra: "Ho saputo che tu prenderai il fratello più piccolo di Maradona". È una battuta che non fa ridere nessuno. Specialmente la delegazione italiana. Perché vuole far passare gli azzurri per parvenu, proletari che sono riusciti a infiltrarsi a una festa dell’alta borghesia. Sembra quasi una trasposizione sportiva e sgradevole della famosa massima di Jean-Paul Sartre: "Il povero non sa che la sua funzione nella vita è permetterci la generosità". D’altra parte il Napoli che si presenta al Santiago Bernabeu con lo scudetto cucito sul petto è un’entità molto vicina all’idea di cenerentola. Al momento del sorteggio Luciano Moggi, che aveva appena sostituito Italo Allodi, aveva commentato: "Peggio di così, si muore". È una fotografia brutale di un momento storico particolare. Il Napoli può mandare in campo un giocatore che tende alla deità come Diego Armando Maradona. Ma a differenza del Real ha un palmares e una credibilità internazionale ancora tutta da vedere. In campo non c’è storia. Le meringhe vincono 2-0 all’andata e pareggiano 1-1 al ritorno. I partenopei sono fuori dalla Coppa dopo appena due partite.

Da quel momento le strade dei due club non si incroceranno per trent’anni. Almeno direttamente. Sì perché c’è molto del Real Madrid nella crescita recente del Napoli.

Il processo è partito una decina di anni fa. Nell’estate del 2013 Walter Mazzarri lascia i campani dopo aver portato la squadra per due volte in Champions League. Il suo successore si chiama Rafa Benitez. È reduce da due avventure particolari sulle panchine di Inter e Chelsea (con cui ha vinto anche un’Europa League). Il suo profilo è peculiare e affascinante. Metodico, puntiglioso, quasi ossessivo. E vanta ancora un enorme credito per la coppa con le grandi orecchie conquistata con il Liverpool otto anni prima. Ma Rafa è stato anche un prodotto del Real senza mai riuscire a diventarne simbolo. Benitez a Madrid ci è nato. Ed è stato anche un modesto calciatore. È cresciuto nelle giovanili dei Blancos e poi ha militato a lungo nel Castilla, la seconda squadra del club. Da lì è partita la sua carriera da giocatore. E da lì, come in una simmetria perfetta, è partita anche la sua storia da allenatore. Prima con le giovanili, poi con il Castilla. Il suo arrivo è la certificazione delle ambizioni del Napoli. Perché in quel momento la fama di Benitez è sovradimensionata rispetto a quella del club. La sua sola presenza viene vista come una garanzia per l’arrivo di giocatori importanti. Ed è così.

I partenopei pescano proprio nella vecchia casa dell’allenatore. Perché gli avanzi di un grandissimo club possono trasformarsi in pietanze straordinarie per tutti gli altri. Ed è così anche stavolta. Arriva Callejon. Arriva Raul Albiol. Ma soprattutto arriva Gonzalo Higuain. Due colpi importanti insieme a uno straordinario. Ma tutti resi possibile da quello che i giornali definiscono il "credito" di Benitez. È in questo biennio che il Napoli comincia a mutare pelle, a creare una codificazione dei movimenti che poi verrà elevata a sistema da altri. Il gioco parte dai centrali difensivi che impostano insieme (o a volte al posto dei) mediani, le ali che tagliano, i terzini che si alzano per partecipare alla manovra. Con Rafa il Napoli vince una Supercoppa e una Coppa Italia. È solo l’inizio. Oppure così sembra.

Grazie a Sarri i movimenti di Callejon diventano prima tratti distintivi e poi parole chiave iconiche per raccontare un modo di vedere il calcio. Higuain non è solo un attaccante dominante in grado di vincere la classifica dei marcatori, ma anche un un’idea in maglietta e calzoncini, la dimostrazione che il Napoli è capace di mantenere intatta quella linea dinastica di bomber che poi troverà il suo apice con Victor Osimhen, acquistato anni più tardi per aprire l’ultima fase del processo di mutazione. Con Sarri il Napoli dimostra di essere una squadra in grado di sedersi allo stesso tavolo delle grandi, di poter competere ad armi pari per lo scudetto. Ma è una squadra che sembra anche condannata a diventare una versione moderna del mito di Sisifo. Ogni volta che sembra sul punto di farcela, di strappare quel benedetto tricolore, ecco che deve tornare a valle per caricarsi nuovamente il suo fardello sulle spalle. A chiudere il cerchio doveva essere Carlo Ancelotti, un altro allenatore che a Madrid ha fatto cose straordinarie. Il suo regno a Napoli è finito in modo inatteso. Con un secondo posto che non ha potuto sovrascrivere quell’idea di amore mai sbocciato. E che aveva lasciato una squadra dilaniata. Eppure, nonostante quel fallimento, Napoli e il Napoli non hanno mai smesso di aumentare la loro credibilità. Alla fine lo scudetto a smesso di essere un sogno. È diventato una realtà. Grazie a Spalletti, certo, ma grazie anche a quello strano rapporto che sembra aver legato Napoli a Madrid negli ultimi anni. I partenopei che oggi affrontano il Real non sono più degli imbucati alla festa, ma una squadra con un’identità moderna e lontana dai soliti stereotipi del calcio all’italiana. E il merito, paradossalmente, è anche del Real. 

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